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Il seguente rifacimento della parabola della pecora smarrita fu raccontato dal cardinale Giacomo Lercaro a un gruppo di bambini bolognesi.
C'era un pastore, che aveva cento pecore. Sono tante o sono poche, cento pecore? Sono tante? No, sono poche, cento pecore. Perché? Eh, perché nel paese di Gesù i pastori ne avevano tante, di pecore: migliaia e migliaia. Abramo, che era un grande pastore del paese di Gesù, aveva trecentodiciotto uomini, a custodirgli tutte le sue pecore. Pensate, dunque, quante ne aveva!
Invece questo pastore ne aveva cento, appena. Perché erano cosi poche, gli erano tutte care. Uno, che ha un milione di pecore, che se ne fa, se gliene muore una? Ma chi ne ha cento, ah, vuol bene a tutte.
Questo pastore voleva bene a tutte le sue; e le conosceva tutte, una per una; e le chiamava per nome: una era la Neretta, perché era tutta nera, come il carbone; l'altra la chiamava Ricciutella, perché aveva una lana ricciuta, bella bella.
Ce n'era una, però, che era la più bella di tutte, proprio la più bella: bianca bianca come la neve, con una lana fina fina. La chiamava: la Bianchina.
Era bella, ma un po' capricciosa. Ce ne sono fra voi, dei capricciosi? No, fra voi non ce ne sono...
Le sue compagne dicevano: «Che cosa crede di essere? la regina?». E non la volevano neppure con loro: lei stava sempre vicina al pastore. Anche il pastore voleva bene alla Bianchina, e mangiava sempre vicino a lei: e le dava, a volte, un po' del suo pane: ma la Bianchina era sempre più capricciosa e superba.Un mattino, il pastore uscì dal recinto.
Perché su, sui monti, i pastori non hanno la casa: hanno un recinto, dove tengono le pecore la notte, perché non vadano i ladri a rubarle o i lupi a mangiarle.
C'erano, lì vicino, tanti altri pastori, che avevano tutti il proprio recinto. Allora, aprì il recinto, ne fece uscire le pecore, e le chiamava tutte per nome.
Poi si mise avanti, col sua bastone, e cantava. Cantava e camminava: su, su per la collina, per i prati, finché trova un bel posto, tutto pianeggiante, dove c'era tanta bella erba verde. Allora sedette lì, e le pecore si sparsero a brucare tutto intorno, belando: beh, beh...
La Bianchina stette un po' vicino al pastore, poi se ne andò; ma non voleva andare con le altre pecore. «Tutte brutte – diceva lei, – sono tutte brutte, non mi piacciono: io voglio star sola!».
Vide un bel cespuglio di fiori, e camminò per brucarli; poi ancora ne vide uno più distante, e andò: poi avanti, e vai e vai, si allontanò tanto dal gregge.
Intanto il pastore vedeva tutte le pecorelle d'intorno e non pensava che quella scervellata se ne fosse andata così lontana.Venne la sera. La Bianchina era distante, distante, ormai era scesa in fondo a una valle, era risalita sul pendio di fronte, poi ancora era discesa.
Quando s'accorse che il sole era scomparso, allora cominciò a batterle il cuore forte forte: puff, puff ... perché aveva sentito raccontare la storia dei lupi, che la notte escono a mangiare le pecore, e degli sciacalli, che sono dei cani feroci i quali, se trovano una pecora, se ne fanno una colazione e una cena in quattro bocconi.
Allora lei incominciò, poverina, ad andare piano piano, per non fare rumore. Ma, ad un tratto:«Oh, povera me! Che cosa ho sentito? L'ululo del lupo. Si, questo è l'ululo del lupo! Lontano lontano, ma è l'ululo del lupo... e poi... l'abbaiare dello sciacallo...».
Che paura, povera Bianchina!
Intanto, fattosi sera, il pastore diede un fischio, che tutte le pecore conoscevano, e tutte: beh, beh..., si raccolsero intorno a lui.
Lui si mise davanti, col suo bastone, e cantando se ne tornava verso il recinto, e le pecore dietro.
Arrivato al recinto, si mette sulla porta, per farle entrare, e le pecore entrano, e lui le conta tutte: «Una, due, tre, quattro ... avanti, Neretta ... cinque, sei, sette ... su Ricciutella ... otto, nove, dieci, undici ... venti ... trenta ... quaranta... cinquanta ... sessanta ... settanta ... ottanta ... novanta, novantuna, novantadue, novantatré, novantaquattro, novantacinque, novantasei, novantasette, novantotto, novantanove ... Ne manca una!».
Chiude, e guarda le pecore: «Ho bell'e capito: è quella scervellata della Bianchina. Oh, povero me! Adesso mi è rimasta lassù e il lupo me la divora certamente... Ma no, no; io vado a cercarla!».
Le pecore se ne stavano zitte zitte, non osavano neppur belare, e lo videro, che prese il suo bastone e il suo cappellone, e andò dagli altri pastori, ad avvertirli: «Fatemi un po' la guardia anche al mio gregge». E partì.
«Ehm, quella smorfiosetta – avranno pensato le altre pecore – non vuol mai stare con noi, e adesso la pagherà, una volta per tutte. Non vuol stare in compagnia, perché lei è la più bella; vedrà che cosa le giova la sua bellezza...».
«Mi rincrescerebbe – pensava un'altra, – se il lupo se la dovesse mangiare; mi rincrescerebbe, ma dopo tutto se l'è meritato, se l’è proprio voluto…».Il pastore andava di corsa, e di tanto in tanto lanciava un fischio, e poi tendeva l'orecchio, se sentisse un belato.
La povera Bianchina si era tutta nascosta infilandosi dentro a un rovo, che le aveva strappato la lana bianca e l'aveva tutta punta: ma lei se ne stava lì quieta, quasi senza respirare, per paura che si avvicinassero un lupo o uno sciacallo. A un certo momento, le parve di sentire il fischio del pastore e tese l’orecchio: il fischio si ripeté. «Oh è proprio il pastore, il mio buon pastore, che viene a cercarmi!».
Stette ancora in attesa, e il fischio si ripeté, più vicino. Allora fece un belato piccolo piccolo, e il pastore un altro fischio; lei un altro belato, lui un altro fischio; un altro belato, e il pastore si avvicinava, si avvicinava...
«Eccolo, eccolo che arriva! Che gioia, che gioia sentirlo arrivare!… Ma adesso me le suona. Adesso me le dà», pensava la Bianchina.
«Oh, meglio le botte del pastore, che i denti del lupo o dello sciacallo!».
Le pecorine dormivano con un occhio solo e stavano aspettando.
A un certo punto sentono la voce del pastore, che canta. «Arriva! Canta, vuol dire che l'ha trovata!».
Stanno lì, e chiudono allora tutt'e due gli occhi, e fanno finta di dormire tranquille.
Pensano: «Adesso, almeno, una buona penitenza gliela darà, no?».
Il pastore arriva, posa la pecorina, l'accarezza e: «Va' Bianchina – le dice – va' a fare nanna, chissà come sei stanca, poverina; dormi tranquilla!».
Le altre non aprono neppure un occhio, e continuano a ruminare, come se dormissero tranquillamente.
Il pastore prende due fiaschi e va dagli amici, e dice: «Facciamo festa, avevo perduto la mia pecora e l'ho ritrovata! Sapete chi è, la Bianchina?».
(Da: Card. Giacomo Lercaro, La storia di Bianchina,
conversazione registrata e trascritta a cura di mons. Giovanni Catti)
Pietro Cavallero fu a capo di una banda di rapinatori che negli anni ’60 compì una serie di rapine nel Nord-Italia, culminate in una strage compiuta a Milano nel pomeriggio del 25 settembre 1967, quando, dopo aver svaligiato una banca, per sfuggire alla cattura i rapinatori spararono all’impazzata lasciando sulla strada morti e feriti.
Al termine dell’inseguimento da parte delle Forze dell’ordine, i malviventi furono catturati e al successivo processo condannati all’ergastolo.
Durante la detenzione, Pietro Cavallero si dedicò alla pittura e alla stesura di vari scritti e, assistito da un frate francescano, si convertì progressivamente alla fede cristiana.
Uscito dal carcere nel 1988 per buona condotta, sconfessò totalmente le sue malefatte e si dedicò all’attività di volontario fra gli emarginati dell’Arsenale della Pace del SERMIG di Torino.
Ebbe un incontro con il cardinal Martini di Milano, durante il quale chiese perdono dei suoi crimini.
È morto a Torino il 28 Gennaio 1997.
Presentiamo qui alcuni passi del discorso pronunciato da papa Benedetto XVI alla Sinagoga di Roma, il 17 gennaio 2010:
In particolare il Decalogo – le "Dieci Parole" o Dieci Comandamenti (cf. Es 20,1-17; Dt 5,1-21) – che proviene dalla Torah di Mosè, costituisce la fiaccola dell'etica, della speranza e del dialogo, stella polare della fede e della morale del popolo di Dio, e illumina e guida anche il cammino dei cristiani. Esso costituisce un faro e una norma di vita nella giustizia e nell'amore, un "grande codice" etico per tutta l'umanità.
Le "Dieci Parole" gettano luce sul bene e il male, sul vero e il falso, sul giusto e l'ingiusto, anche secondo i criteri della coscienza retta di ogni persona umana. Gesù stesso lo ha ripetuto più volte, sottolineando che è necessario un
impegno operoso sulla via dei comandamenti:"Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti" (Mt 19,17). In questa prospettiva, sono vari i campi di collaborazione e di testimonianza. Vorrei ricordarne tre particolarmente importanti per il nostro tempo.
Le "Dieci Parole" chiedono di riconoscere l'unico Signore, contro la tentazione di costruirsi altri idoli, di farsi vitelli d'oro. Nel nostro mondo molti non conoscono Dio o lo ritengono superfluo, senza rilevanza per la vita; sono stati fabbricati così altri e nuovi dèi a cui l'uomo si inchina. Risvegliare nella nostra società l'apertura alla dimensione trascendente, testimoniare l'unico Dio è un servizio prezioso che ebrei e cristiani possono offrire assieme.
Le "Dieci Parole" chiedono il rispetto, la protezione della vita, contro ogni ingiustizia e sopruso, riconoscendo il valore di ogni persona umana, creata a immagine e somiglianza di Dio. Quante volte, in ogni parte della terra, vicina e lontana, vengono ancora calpestati la dignità, la libertà, i diritti dell'essere umano! Testimoniare insieme il valore supremo della vita contro ogni egoismo è offrire un importante apporto per un mondo in cui regni la giustizia e la pace, lo "shalom" auspicato dai legislatori, dai profeti e dai sapienti di Israele.
Le "Dieci Parole" chiedono di conservare e promuovere la santità della famiglia, in cui il "sì" personale e reciproco, fedele e definitivo dell'uomo e della donna, dischiude lo spazio per il futuro, per l'autentica umanità di ciascuno, e si apre, al tempo stesso, al dono di una nuova vita. Testimoniare che la famiglia continua ad essere la cellula essenziale della società e il contesto di base in cui si imparano e si esercitano le virtù umane è un prezioso servizio da offrire per la costruzione di un mondo dal volto più umano.
Come insegna Mosè nello Shemah (cf. Dt 6,5; Lv 19,34) - e Gesù riafferma nel Vangelo (cf. Mc 12,19-31), tutti i comandamenti si riassumono nell'amore di Dio e nella misericordia verso il prossimo. Tale Regola impegna ebrei e cristiani ad esercitare, nel nostro tempo, una generosità speciale verso i poveri, le donne, i bambini, gli stranieri, i malati, i deboli, i bisognosi. Nella tradizione ebraica c'è un mirabile detto dei padri d'Israele: "Simone il Giusto era solito dire: Il mondo si fonda su tre cose: la Torah, il culto e gli atti di misericordia" (Aboth 1,2). Con l'esercizio della giustizia e della misericordia, ebrei e cristiani sono chiamati ad annunciare e a dare testimonianza al Regno dell'Altissimo che viene, e per il quale preghiamo e operiamo ogni giorno nella speranza.
(Da: Benedetto XVI, Comune testimonianza, discorso pronunciato alla Sinagoga di Roma, 17 gennaio 2010)