Il commercio equo-solidale è una forma di commercio che si è andata sviluppando negli ultimi decenni e che ha come obiettivo di fondo quello della lotta allo sfruttamento e alla povertà dovuta a cause economiche e sociali.
Il commercio equo e solidale (in inglese Fair Trad) garantisce un trattamento economico più adeguato e quindi più giusto ai piccoli produttori del Sud del mondo, permettendo un miglioramento delle loro condizioni di vita.
Iniziatori di questa forma di commercio sono stati negli anni ’80 il sacerdote Frans Van der Hoff e l’economista Nico Roozen, entrambi olandesi.
Frans Van der Hoff – teologo ed economista, nasce in Olanda nel 1939. Nel 1968 diventa sacerdote. Dopo aver insegnato antropologia politica e teologia della liberazione all’Università di Ottawa, abbandona la carriera accademica per poter mettere in pratica i princìpi insegnati. Una prima esperienza in Cile si conclude nel 1973, in seguito al colpo di Stato. Si stabilisce poi in Messico, dove con i campesinos – così vengono chiamati i contadini del Centro e del Sud America – dà vita alla cooperativa di lavoro per la produzione del caffè UCIRI, una delle esperienze più significative di commercio equo e solidale.
Nico Foozen – economista olandese, nato nel 1953, ha lavorato per anni per Solidaridad, un’organizzazione interconfessionale per lo sviluppo dell’America Latina. Insieme a Frans Van der Hoff è stato l’ideatore e il promotore del commercio equo e solidale.
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Il primo incontro tra questi due personaggi avvenne nel 1985 in un bar della stazione di Utrecht, in Olanda: in quell’occasione essi tracciarono le linee di principio che guideranno le prime esperienze del commercio equo-solidale.
Da allora il commercio equo-solidale ha avuto un rapido sviluppo, che lo ha portato negli anni successivi ad essere una bella realtà, sia pure di piccole dimensioni, nel panorama del mercato internazionale.
Il commercio equo-solidale oggi
Attualmente i prodotti tipici del commercio equo sono: caffè, tè, zucchero di canna, cacao, miele, orzo, frutta secca (anacardi, uvetta, mango...), infusi (carcadè, camomilla, menta ...), spezie (pepe, cannella, chiodi di garofano, noce moscata...), banane, ananas e altri. Non mancano anche prodotti dell'artigianato locale.
Per quanto riguarda le dimensioni del fenomeno, nel 2005 nella sola Unione Europea il commercio equo-solidale ha raggiunto un fatturato record di 660 milioni di euro, due volte e mezzo superiore rispetto allo stesso nel 2001. Sempre nell'UE, sono più di 79 mila i punti vendita che trattano merci solidali (57 mila di questi sono supermercati comuni che vendono anche prodotti equi), mentre sono circa 2800 le «Botteghe del Mondo», presso cui offrono il loro servizio circa 100 mila volontari.
Le botteghe solidali in tutta Italia sono circa seicento e sono concentrate prevalentemente nel Nord. Oltre che prodotti agricoli offrono anche prodotti artigianali di fascia medio-alta provenienti da più di cinquanta paesi del sud del mondo.
Il 52,2% delle botteghe ha lo status di associazione mentre il 24% sono cooperative. Da notare che l'88% di esse si trova nelle grandi città. Le persone coinvolte nelle botteghe tra dipendenti, volontari, soci e cooperative sono sessantamila.
I prodotti del commercio equo, specialmente quelli alimentari, si trovano anche in molte catene della grande distribuzione. I punti vendita che trattano prodotti equo-solidali in Italia sono più di cinquemila.
Da notare però che in Italia la spesa pro capite è la più bassa d'Europa: trentacinque centesimi di euro a testa.
Il fatto
La multinazionale americana Union Carbide aveva ottenuto nel 1969, dal Ministero dell'Agricoltura indiano, la licenza per produrre a Bhopal 5000 tonnellate di pesticidi all'anno.
Molte famiglie, bisognose di lavoro, videro la Carbide come l'opportunità per uscire dalla miseria delle bidonville e si trasferirono in prossimità dello stabilimento.
Ma la fabbrica fu costruita senza tenere conto del clima imprevedibile dell'India: le colture andavano a morire per troppa o poca acqua, di conseguenza i contadini non compravano i pesticidi.
E il dramma si verificò in una notte, in tutto il suo orrore, avvolgendo nel suo gas mortale migliaia di persone. Un disastro annunciato. Era la notte fra il 2 e il 3 dicembre del 1984.
Il libro
Con queste semplici parole Dominique Lapierre introduce il libro-indagine Mezzanotte e cinque a Bhopal (Mondadori, Milano 2001) da lui scritto insieme a Javier Moro, che descrive il dramma umano che seguì alla tragedia accaduta nel centro dell’India nel dicembre del 1984:
Un giorno incontrai un imponente indiano di una quarantina d'anni con un foulard rosso stretto attorno alla fronte e una treccia di capelli sul collo. Dal sorriso splendente e dal calore dello sguardo capii subito che quell'uomo era un autentico apostolo al servizio dei più diseredati. Avendo saputo che sul delta del Gange c'era un secondo battello-dispensario Città della gioia, il cui scopo era quello di soccorrere la popolazione di cinquantaquattro isole totalmente prive di assistenza medica, era venuto a chiedere il mio aiuto.
Da più di dieci anni Satinah "Sathyu" Sarangi, è questo il suo nome, si occupa di un'organizzazione non governativa, apolitica e non confessionale, che cura con grande dedizione le vittime più indifese della maggiore catastrofe industriale della storia, quella che, nella notte fra il 2 e il 3 dicembre 1984, in seguito a una massiccia fuga di gas tossici, fece nella città di Bhopal, in India, dai sedicimila ai trentamila morti e procurò gravi danni alla salute di altre duecentomila persone circa.
Avevo un vago ricordo della tragedia, ma, in cinquantadue anni di peregrinazioni attraverso quell'immenso paese che è l'India, non avevo mai fatto scalo nella magnifica capitale del Madhya Pradesh.
Sathyu veniva a chiedermi di finanziare la creazione e le attrezzature di una clinica ginecologica in cui potessero essere curate donne prive di mezzi che, sedici anni dopo, soffrivano ancora dei terribili postumi dell'incidente.
Sono andato a Bhopal. Quello che vi ho scoperto mi ha profondamente sconvolto. Grazie ai miei diritti d'autore e alla generosità dei lettori di La città della gioia e di Mille soli, abbiamo potuto aprire tale clinica in cui oggi vengono accolte, curate e guarite centinaia di donne che tutti gli ospedali della città avevano abbandonato alla loro sorte.
Ma questa esperienza mi ha soprattutto messo di fronte a uno dei temi più inquietanti di tutta la mia carriera di giornalista e di scrittore. Perché e come si è potuto verificare un evento così tragico? Chi l'ha determinato, chi ha materialmente agito, chi ne ha subito le conseguenze e chi in definitiva ne ha tratto vantaggio?
Ho chiesto allo scrittore spagnolo Javier Moro, autore di uno splendido libro sul dramma tibetano, di venire a raggiungermi a Bhopal. La nostra inchiesta è durata tre anni. Questo libro ne è il frutto.
La sentenza
Ed ecco la notizia pubblicata da «Rivista giornalistica cattolica La Perfetta Letizia» il giorno lunedì 7 giugno 2010:
Due anni di carcere per 15mila morti e 600mila intossicati
Il Tribunale ha condannato oggi 8 persone per il disastro del 1984, quando il gas cianuro uscì dalla fabbrica della Union Carbide e avvelenò nel sonno i quartieri bassi. La condanna è di 2 anni di carcere ciascuno.
Il bisogno di salvaguardare il creato unisce tutti gli uomini e tutte le donne che hanno a cuore il futuro dei giovani e del mondo intero.
Anche la Chiesa ha ripetutamente sottolineato che il creato è stato consegnato da Dio Padre all’uomo perché lo custodisca per sé e per le generazioni future.
In particolare sia papa Giovanni Paolo II che papa Benedetto XVI hanno usato parole molto chiare e forti su questo tema che unisce, seppur con prospettive diverse, credenti e non credenti.
Fra i tanti documenti scritti dai rappresentanti più consapevoli dei paesi potenti della terra esaminiamo qui la Carta della Terra, una dichiarazione di princìpi fondamentali per la costruzione di una società globale giusta, sostenibile e pacifica, scritta da intellettuali e politici, credenti e non, a partire dal 1995.
La Carta si propone di ispirare in tutti i popoli un nuovo sentimento d’interdipendenza globale e di responsabilità condivisa per il benessere dell’intera la famiglia umana, della grande comunità della vita e delle generazioni future.
Il testo finale della Carta della Terra, che venne approvato nel corso di un meeting della «Commissione della Carta della Terra» presso il quartier generale dell'UNESCO, a Parigi, nel marzo del 2000, contiene una prefazione, 16 princìpi fondamentali, 61 articoli e una conclusione intitolata Uno sguardo al futuro.
La prefazione afferma che «siamo un’unica famiglia umana e una comunità della Terra con un destino comune» ed esorta ognuno a riconoscere la propria comune responsabilità, secondo le proprie inclinazioni e capacità, per il benessere dell'intera famiglia umana, importante luogo di vita comunitaria, e delle future generazioni. Riconoscendo i legami tra le questioni ambientali, economiche, sociali e culturali dell'umanità, la Carta della Terra presenta una struttura etica che tiene conto di tutti questi aspetti.
Ecco il testo integrale del preambolo e dei primi quattro capitoli:
Preambolo
Ci troviamo a una svolta critica nella storia del Pianeta, in un momento in cui l’umanità deve scegliere il suo futuro. A mano a mano che il mondo diventa sempre più interdipendente e fragile, il futuro riserva allo stesso tempo grandi pericoli e grandi opportunità. Per progredire dobbiamo riconoscere che, pur tra tanta magnifica diversità di culture e di forme di vita, siamo un’unica famiglia umana e un’unica comunità terrestre con un destino comune. Dobbiamo unirci per costruire una società globale sostenibile, fondata sul rispetto per la natura, sui diritti umani universali, sulla giustizia economica e sulla cultura della pace. Per questo fine è imperativo che noi, i popoli della Terra, dichiariamo la nostra responsabilità gli uni verso gli altri, verso la grande comunità della vita e verso le generazioni future.
[…]
I. RISPETTO E CURA PER LA COMUNITÀ DELLA VITA
1. Rispettare la Terra e la vita, in tutta la sua diversità
a. Riconoscere che tutti gli esseri viventi sono interdipendenti e che ogni forma di vita ha valore,
indipendentemente dalla sua utilità per gli esseri umani.
b. Affermare la fede nell'intrinseca dignità di tutti gli esseri umani e nel potenziale intellettuale,
artistico, etico e spirituale dell’umanità.
2. Prendersi cura della comunità vivente con comprensione, compassione e amore
a. Accettare che al diritto di possedere, gestire e utilizzare le risorse naturali, si accompagna il
dovere di prevenire danni all'ambiente e di tutelare i diritti dei popoli.
b. Affermare che con l'aumento della libertà, della conoscenza e del potere, cresce anche la
responsabilità di promuovere il bene comune.
3. Costruire società democratiche che siano giuste, partecipative, sostenibili e pacifiche
a. Assicurare che le comunità a ogni livello garantiscano i diritti umani e le libertà fondamentali e
forniscano a tutti l'opportunità di realizzare appieno il proprio potenziale.
b. Promuovere la giustizia sociale ed economica, per permettere a tutti di raggiungere uno
standard di vita sicuro e dignitoso, che sia ecologicamente responsabile.
4. Tutelare i doni e la bellezza della Terra per le generazioni presenti e future
a. Riconoscere che la libertà di azione di ciascuna generazione è condizionata dalle esigenze
delle generazioni future.
b. Trasmettere alle generazioni future valori, tradizioni e istituzioni capaci di sostenere la
prosperità a lungo termine delle comunità umane ed ecologiche della Terra.
Negli ultimi decenni del XX secolo una grave crisi ecologica ha colpito il bacino del fiume Columbia. Il fiume nasce in Canada e, attraverso gli Stati Uniti, giunge fino all’Oceano Pacifico con un percorso lungo 2250 chilometri.
Nel 2001 i ventuno vescovi cattolici delle regioni attraversate dal fiume, preoccupati per la crisi dell’ecosistema del grande bacino, al termine di un programma triennale di consultazioni con le istituzioni della regione pubblicarono un documento dal titolo: Il bacino del fiume Columbia. Rispetto per la creazione e bene comune (pubblicato su Il Regno-Documenti, n. 886, 1 settembre 2001).
Del documento fa parte il testo letterario intitolato La Canzone del Fiume, di cui qui riportiamo uno stralcio.
► Se vuoi ascoltarne la lettura con sottofondo musicale, clicca qui
All'inizio era il Verbo,
che generò il cosmo,
creando le stelle, le terre e le acque,
un universo meraviglioso, dinamico e benedetto.
Lo Spirito alitò il suo soffio vitale sul cosmo:
nelle acque,
in un tempo lontanissimo,
ebbe origine la prima vita,
e poi nuove creature,
a popolare l'aria e la terra,
con le pinne e con le ali,
con le radici e con le gambe,
tutte le creature viventi emersero sulla terra
per dare a loro volta la vita,
per generazioni e generazioni.
Varie forme di bellezza
si sparsero nel mondo.
E Dio disse
che ora tutto il creato era «molto buono».
[…]
.Le acque, viventi,
scorrevan per secoli,
le rive di Che Wana [Columbia]
ospitavano nuove genti,
Columbia fu il nuovo nome
del grande fiume;
usavano i beni della natura
in modi nuovi e prosperavano;
ma le genti di prima
furono cacciate dalle loro terre:
i primi abitanti di Che Wana perdettero vite,
pesci, dimore.
Le generazioni si susseguirono
e trasformarono la Terra,
da praterie in fattorie,
cibo e fibra per alcuni,
da boschi in legname e assi per le case,
da colline a fabbriche di alluminio
per nuovi aeroplani,
da montagne a impianti nucleari
e nuove armi.
Alcune persone tagliarono ogni legame
con i fiumi, la loro casa
- con lo Spirito, la terra e i loro simili -
e la terra, sofferente,
languiva, implorando la redenzione.
Il canto del fiume divenne triste,
quasi silenzioso.
Le acque scorrevano lente,
abbandonando la vita:
le voci del vento, degli uccelli e del salmone e di ogni essere vivente
si facevano sempre più deboli e isolate;
i popoli del cielo, della terra e delle acque erano molto stanchi
e bramavano visioni e una vita nuova.
Il vento increspava le rive,
lo Spirito soffiava
la sua brezza sfiorando i popoli del cielo, della terra e delle acque:
si scossero dalle illusioni, dalla danza di morte
per seguire la promessa di una vita nuova a venire.
I fiumi scorrevano, sospinti ora dalle visioni
sentendo che nuovi progetti prendevano corpo sulla terra;
si vedevano luoghi rinnovati e ripristinati,
nuovi abitanti e case, con persone ora consapevoli della presenza dello Spirito,
dei ritmi della terra,
del legame che le unisce le une alle altre…
Che Wana e i fratelli cantarono di gioia,
acque vive,
e gli abitanti del cielo, della terra e dei fiumi che scorrevan veloci,
piante, uccelli, pesci, animali, vita in comunione,
tutti levarono la voce e si unirono al canto.
Dio vide le acque vive e la gente che le amava
... allora il canto del fiume si librò alto, nel vento, sulle onde
Dio benedisse tutti, dicendo: «Tutto questo è molto buono».
La posizione della Chiesa nei confronti della pena di morte ha avuto nel tempo una certa evoluzione. Nei primi secoli del cristianesimo la pena capitale era vista come un’azione lecita e talvolta necessaria, soprattutto in vista della conservazione del bene comune.
Ad esempio sant’Agostino, grande padre della Chiesa vissuto fra il IV e il V secolo, ammetteva la liceità della pena di morte, ma ne auspicava il non utilizzo “per essere in pace con la nostra coscienza e per mettere in risalto la mansuetudine cattolica”, come scriveva in una sua lettera.
Più tardi, nel XIII secolo, ecco cosa affermava san Tommaso d’Aquino, grande filosofo cristiano, in un passo della sua opera Summa Theologica: «Come è lecito, anzi doveroso, estirpare un membro malato per salvare tutto il corpo, così quando una persona è divenuta un pericolo per la comunità o è causa di corruzione degli altri, essa viene eliminata per garantire la salvezza della comunità».
Quindi per punire chi, con le sue azioni malvagie, avrebbe potuto mettere in pericolo la sicurezza della comunità, veniva ammessa la pena capitale, anche se il ricorso ad essa era legato ad atti davvero gravissimi.
Nel medioevo, per un lungo periodo si fece un grande uso della pena di morte, sia contro la stregoneria, per la quale veniva usato il rogo che, eseguito pubblicamente sulla piazza, doveva servire per scoraggiare e intimorire; sia contro l’eresia, cioè l’allontanarsi dalla dottrina cristiana, anche se normalmente l’eretico veniva consegnato al braccio secolare.
Lo stesso Stato Pontificio ha mantenuto nel suo ordinamento la pena di morte fino al XX secolo, abolendola solo nel 1969, benché essa non sia mai stata applicata dopo il 9 luglio 1870, data dell'ultima esecuzione capitale.
La dottrina attuale della Chiesa sul tema della pena di morte è espressa nel Catechismo della Chiesa Cattolica, nel capitolo riguardante il quinto comandamento “Non uccidere” e, in particolare, nel paragrafo sulla legittima difesa.
Leggi gli articoli del Catechismo della Chiesa Cattolica sulla pena di morte:
«Corrisponde a un'esigenza di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell'uomo e delle regole fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il diritto e il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto. La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamente accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l'ordine pubblico e a tutelare la sicurezza delle persone, mira a uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole». (n.2266)
«L'insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell'identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se invece i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall'aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana». (n. 2267)
Il Catechismo ha sostanzialmente recepito quanto papa Giovanni Paolo II aveva scritto un paio di anni prima nella sua enciclica Evangelium vitae:
«Oggi, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l'ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti».
Lo stesso Giovanni Paolo II ha ribadito la necessità di evitare il ricorso alla pena di morte anche in altre occasioni, come ad esempio nel 1999, durante la sua visita negli Stati Uniti , paese dove la pena di morte è ancora in vigore in molti Stati. Egli infatti ha dichiarato:
«La nuova evangelizzazione richiede ai discepoli di Cristo di essere incondizionatamente a favore della vita. La società moderna è in possesso dei mezzi per proteggersi, senza negare ai criminali la possibilità di redimersi. La pena di morte è crudele e non necessaria e questo vale anche per colui che ha fatto molto del male».
Oltre che negli Stati Uniti, oggi la pena di morte è ancora praticata in diversi Stati del mondo. Molte sono però anche le iniziative volte alla sua abolizione, sia da parte dei governi di alcuni Stati, sia di associazioni umanitarie.
«La Chiesa si interessa di sport perché si interessa dell’uomo»: questa frase è contenuta nella nota pastorale Sport e vita cristiana che dà la motivazione dell’attenzione della Chiesa verso la realtà sportiva, un’attenzione che è cresciuta negli ultimi anni in seguito alla dimensione di fenomeno sociale assunta sempre più dallo sport.
Due esempi dell’attenzione della Chiesa allo sport sono stati:
1. la nota pastorale della Conferenza Episcopale Italiana (CEI) su Sport e vita cristiana, pubblicata nel 1995, dove si afferma che lo sport è senz’altro portatore di valori.2. Il Giubileo degli Sportivi, che si è tenuto durante il grande Giubileo dell’anno 2000, con l’omelia di papa Giovanni Paolo II. In quell’occasione il papa assistette anche a una partita di calcio giocata allo Stadio Olimpico di Roma.
Non sempre il mondo dello sport presenta esempi di correttezza e di lealtà, basta seguire le cronache calcistiche che parlano purtroppo spesso di violenza in campo e fuori.
Talvolta però anche il mondo del calcio offre esempi di vera lealtà sportiva, ciò che comunemente viene definita fair play (letteralmente “gioco giusto, corretto”), che è qualcosa di più della semplice osservanza delle regole, ma incorpora in sé valori di amicizia, lealtà e rispetto dell’altro.
>> Tra gli episodi che si potrebbero citare, ne ricordiamo solo alcuni, ad esempio un bell’episodio di fair play che vide protagonista il calciatore Paolo Di Canio, che durante una partita del campionato inglese fermò la palla rinunciando alla possibilità di segnare un goal, avendo visto a terra infortunato il portiere avversario.
>> Episodi del genere avvengono a volte anche sui campi minori: è il caso del fatto, già ricordato anche nel libro di testo che ha visto come protagonista un ragazzo di 14 anni, il quale, durante una partita di calcio, segnò involontariamente un goal con la mano e disse prontamente all’arbitro, che l’aveva invece convalidato non avendo visto il fallo, di annullarlo.
>> Significativo fu anche il gesto dell’atleta Francesco Panetta che nella finale 3000 Siepi dei Campionati Europei di Atletica Leggera di Helsinki (anno 1994) aiutò Alessandro Lambruschini a rialzarsi dopo una caduta che rischiava di compromettere una gara nella quale era favorito (lo si vede nel replay alla fine della corsa) e che effettivamente vinse grazie anche al sostegno del compagno.