Osserva il quadro di Marc Chagall riportato a fianco: rappresenta un rabbino che indossa i capi di «abbigliamento» usuali per un ebreo maschio adulto – cioè che abbia compito tredici anni – durante la preghiera del mattino. Qui li passiamo in rassegna spiegandone brevemente uso e significato.
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Sul capo il rabbino dipinto da Chagall porta innanzitutto la kippah, un copricapo rotondo che viene indossato obbligatoriamente in sinagoga e durante la preghiera, in segno di rispetto verso Dio: coprendosi il capo l’ebreo si ricorda che sopra di lui c’è sempre Dio.
Sul capo e sulle spalle il rabbino del dipinto ha il talled, il mantello che viene usato per la preghiera. Si tratta di un telo rettangolare – di lana, seta, lino o cotone – bianco, generalmente decorato con bande azzurre o nere di varie misure e fornito obbligatoriamente di frange agli angoli e, solitamente, anche su due lati. Nella sua forma ridotta, che lo fa somigliare a una specie di maglia, viene portato sempre addosso da molti ebrei osservanti, sotto la giacca. L’obbligo di indossarlo deriva dalla Bibbia, ed esprime la fede e la fedeltà a Dio del credente ebreo. Dai Vangeli sappiamo che anche Gesù lo indossava.
Al braccio sinistro e sulla fronte, l’ebreo, durante la preghiera del mattino (tranne il sabato), indossa i tefillin, due piccoli astucci quadrati di cuoio nero, con cinghie fissate su di un lato. Uno di essi viene allacciato al braccio sinistro (al destro per i mancini) con una cinghia avviluppata sette volte attorno al braccio, e l'altro è posto sulla testa. Ogni scatoletta contiene i quattro brani della Torah, in cui viene ricordato il precetto che impone l’uso dei tefillin: due di questi brani sono tratti dallo Shemà Israel. Questi brani sono scritti da uno scriba su un'unica pergamena per la tefillah del braccio e su quattro pergamene separate, infilate in quattro scomparti appositamente realizzati, per la tefillah della testa. Alle cinghie dei due tefillin vengono praticati, per essere fissati al corpo, due nodi che riproducono due lettere che insieme formano la parola Shaddai che significa «l'Onnipotente». La preparazione delle scatolette è integralmente manuale e dura un anno intero.
Come possiamo vedere da questa fotografia, l’abbigliamento rituale del rabbino dipinto da Chagall viene usato ancora oggi dagli ebrei, durante la preghiera. Gli ebrei osservanti tengono sempre il capo coperto, e dunque non solo durante la preghiera ma anche fuori dalla sinagoga. Inoltre, quando osserviamo quadri del passato o fotografie contemporanee di ebrei osservanti notiamo che i volti maschili hanno tutti la barba. Secondo l’interpretazione di un passo biblico del Levitico, agli ebrei è infatti proibito usare il rasoio per tagliarsi barba e baffi; è però consentito l’uso delle forbici. Oggi, poi, il diffondersi del rasoio elettrico ha molto attenuato questa norma.
Per rispetto alla stessa prescrizione biblica gli ebrei ortodossi si lasciano crescere i capelli a livello delle tempie. Queste ciocche si chiamano peot.
Infine, per quanto riguarda le donne, presso molti gruppi religiosi anche loro devono avere sempre il capo coperto: da un cappello, da un fazzoletto, da una rete o da una parrucca.
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Il rito (séder) si dipana attraverso vari momenti. Uno di questi è la narrazione che segue un testo, l’Haggadàh di Pasqua, in cui si «narrano» i fatti meravigliosi della liberazione dall’Egitto.
È durante questa «narrazione» che sono coinvolti i bambini che partecipano alla cena.
Subito prima che inizi la parte dedicata alla narrazione il capo famiglia toglie, senza motivo apparente, il piatto principale della tavola per stuzzicare la curiosità dei bimbi e dar loro lo spunto per porre le tipiche domande previste dal rito. È così che i bambini seduti a tavola entrano nel rito stesso con domande predisposte per facilitare la loro partecipazione e la loro comprensione di ciò che si sta celebrando.
Ecco le domande che loro allegramente pongono:
- Cosa differenzia questa sera da tutte le altre sere?
- Perché tutte le altre sere non intingiamo le verdure neppure una volta e stasera invece due volte?
- Perché tutte le altre sere mangiamo pane lievitato e non lievitato e stasera solo «mazzà» (pane non lievitato)?
- Perché tutte le altre sere mangiamo ogni tipo di verdure e stasera solo erbe amare?
- Perché tutte le altre sere mangiamo composti o appoggiati sul gomito e stasera solo appoggiati sul gomito?
Gli adulti rispondono:
● Schiavi fummo del Faraone in Egitto, ma di là ci fece uscire il Signore, nostro Dio, con mano forte e braccio disteso. Se il Santo – benedetto Egli sia – non avesse fatto uscire i nostri padri dall'Egitto, noi, i nostri figli e i figli dei nostri figli saremmo ancora schiavi del Faraone in Egitto. Perciò, anche se fossimo tutti saggi, tutti intelligenti, tutti esperti nella Legge, sarebbe ancora nostro dovere intrattenerci sull'uscita dall'Egitto; anzi quanto più ci si sofferma a trattare dell'uscita dall'Egitto, tanto più si è degni di lode.
E poi il capofamiglia prosegue spiegando che ci sono quattro tipi di figli a cui si devono dare queste risposte:
- C’è il figlio saggio che domanderà: Quali sono i precetti, gli statuti e le norme che vi ha comandato il Signore nostro Dio?
A lui si risponderà citando le parole della Torah che insegnano come deve essere celebrata la Pasqua.
- C’è il figlio cattivo che domanderà: Cosa è questa vostra – e non dirà «nostra» – cerimonia?
A lui si risponderà: Tutto ciò è per quanto il Signore fece per me quando uscii dall’Egitto – e non gli viene detto: “per te” perché se fosse stato in Egitto non sarebbe stato liberato.
- Il figlio semplice domanderà: Che succede?
E gli si risponderà: Con la sua potenza ci fece uscire il Signore dall’Egitto, dal luogo di schiavitù.
- Per il figlio che non sa ancora porre domande sarà la madre che interverrà per spiegargli cosa sta accadendo e così ubbidirà al comandamento che le dice di parlare a suo figlio nel giorno di Pesach dicendogli che il rito festeggia ciò che ha fatto per lei il Signore quando uscì dall’Egitto.
Come spiega la dottoressa Anita Frankovà, direttrice del Museo ebraico di Praga, il ghetto di Terezin «fu costruito come campo di passaggio per tutti gli ebrei del cosiddetto "Protettorato di Boemia e Moravia", istituito dai nazisti dopo l'occupazione della Cecoslovacchia, prima che gli stessi venissero deportati nei campi di sterminio nei territori orientali. Più tardi vi furono deportati anche gli ebrei della Germania, Austria, Olanda e Danimarca. Nel periodo in cui durò il ghetto – dal 24 novembre 1941 fino alla liberazione avvenuta l'8 maggio 1945 – vi passarono 140.000 prigionieri. Proprio a Terezin perirono circa 35.000 detenuti. Degli 87.000 prigionieri deportati a Est, dopo la guerra fecero ritorno solo 3.097 persone.
Fra i prigionieri del ghetto di Terezin ci furono all'incirca 15.000 bambini, compresi i neonati. Erano in prevalenza bambini degli ebrei cechi, deportati a Terezin insieme ai genitori, in un flusso continuo di trasporti fin dagli inizi dell'esistenza del ghetto. La maggior parte di essi morì nel corso nel 1944 nelle camere a gas di Auschwitz. Dopo la guerra ne ritornò meno di un centinaio e di questi nessuno aveva meno di quattordici anni.
I bambini sopportarono il destino del campo di concentramento assieme agli altri prigionieri di Terezin.
Dapprima i ragazzi e le ragazze che avevano meno di dodici anni abitavano nei baraccamenti assieme alle donne; i più grandi erano con gli uomini. Tutti i bambini soffrirono assieme agli altri le misere condizioni igieniche e abitative e la fame. Soffrirono anche per il distacco dalle famiglie e per il fatto di non poter vivere e divertirsi come bambini. Per un certo periodo i prigionieri adulti riuscirono ad alleviare le condizioni di vita dei ragazzi facendo sì che venissero concentrati nelle case per i bambini.
La permanenza nel collettivo infantile alleviò un tantino, specialmente sotto l'aspetto psichico, l'amara sorte dei piccoli prigionieri. Nelle case operarono educatori e insegnanti prigionieri che riuscirono, nonostante le infinite difficoltà e nel quadro di limitate possibilità, a organizzare per i bambini una vita giornaliera e perfino l'insegnamento clandestino. Sotto la guida degli educatori i bambini frequentavano le lezioni e partecipavano a molte iniziative culturali preparate dai detenuti. E non furono solo ascoltatori: molti di essi divennero attivi partecipanti a questi avvenimenti, fondarono circoli di recitazione e di canto, fecero teatro per i bambini.
I bambini di Terezin scrivevano soprattutto poesie. Una parte di questa eredità letteraria si è conservata.
L'educazione figurativa veniva organizzata nelle case dei bambini secondo un piano preciso. Le ore di disegno erano dirette dall'artista Friedl Dicker Brandejsovà. Il complesso dei disegni che si è riusciti a salvare e che fanno parte delle collezioni del Museo statale ebraico di Praga, comprende circa 4000 disegni. I loro autori sono per la gran parte bambini dai 10 ai 14 anni.
Utilizzavano i più vari tipi e formati della pessima carta di guerra, ciò che potevano trovare, spesso utilizzando i formulari già stampati di Terezin o le carte assorbenti. Per il lavoro figurativo i sussidi a disposizione non bastavano e i bambini dovevano prestarseli a vicenda.
… Disegnavano giocattoli, piatti pieni di cose da mangiare, raffiguravano l'ambiente della casa perduta. Disegnavano e dipingevano prati pieni di fiori, farfalle sui fiori e in volo, motivi di fiaba, giochi di bambini. La maggior parte della collezione comprende questo tipo di disegni.
Il secondo gruppo è formato da disegni con motivi del ghetto di Terezin. Raffigurano la cruda realtà in cui i bambini erano costretti a vivere. Qui incontriamo i disegni delle caserme di Terezin, dei blocchi e delle strade, dei baraccamenti con i letti a tre piani, i guardiani. Ma i bambini disegnavano anche i malati, l'ospedale, il trasporto, il funerale o un'esecuzione.
Nonostante tutto però i piccoli di Terezin credevano in un domani migliore. Espressero questa loro speranza in alcuni disegni in cui hanno raffigurato il ritorno a casa. Sui disegni c'è di solito la firma del bambino, talvolta la data di nascita e di deportazione a e da Terezin.
La data di deportazione è anche in genere l'ultima notizia del bambino. Questo è tutto quanto sappiamo sugli autori dei disegni, ex prigionieri bambini del ghetto nazista. La stragrande maggioranza dei bambini di Terezin morì. Ma è rimasto conservato il loro lascito letterario e figurativo che a noi parla delle sofferenze e delle speranze perdute.»
Nella sinagoga Pinkas, uno degli edifici che costituiscono il Museo ebraico di Praga, sono conservati alcuni dei disegni e delle poesie dei bambini di Terezin,
Le poesie e i disegni esposti sono solo una parte di quelli ritrovati all’interno di due valigie, in cui erano stati custoditi. Un cartellino nero riporta il nome dell’autore, la data di nascita e quelle della deportazione e della morte.
La scritta survived = «sopravvissuto» si riferisce a quei bambini (circa in centinaio) che sono potuti uscire vivi dal campo.
La farfalla
Il giardino
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I dieci punti di Seelisberg
Nell’estate del 1947 a Seelisberg, in Svizzera, si tenne una conferenza internazionale alla quale parteciparono un centinaio di delegati ebrei e cristiani (cattolici e protestanti), provenienti da una ventina di paesi.
Per l’occasione Jules Isaac, uno dei principali protagonisti del nuovo corso dei rapporti tra ebrei e cristiani, aveva preparato uno schema in diciotto punti, che vennero discussi, e infine fu approvata una dichiarazione conosciuta come I dieci punti di Seelisberg.
Questo è il testo.
I dieci punti di Seelisberg
- Ricordare che è lo stesso Dio vivente che parla a tutti noi nell’Antico come nel Nuovo Testamento.
- Ricordare che Gesù è nato da una madre ebrea, della stirpe di Davide e del popolo d’Israele, e che il suo amore e il suo perdono abbracciano il suo popolo e il mondo intero.
- Ricordare che i primi discepoli, gli apostoli, e i primi martiri, erano ebrei.
- Ricordare che il precetto fondamentale del cristianesimo, quello dell’amore di Dio e del prossimo, promulgato già nell’Antico Testamento e confermato da Gesù, obbliga cristiani ed ebrei in ogni relazione umana senza eccezione alcuna.
- Evitare di sminuire l’ebraismo biblico nell’intento di esaltare il cristianesimo.
- Evitare di usare il termine «giudei» nel senso esclusivo di «nemici di Gesù» o la locuzione «nemici di Gesù» per designare il popolo ebraico nel suo insieme.
- Evitare di presentare la Passione in modo che l’odiosità per la morte inflitta a Gesù ricada su tutti gli ebrei o solo sugli ebrei. In effetti non sono tutti gli ebrei che chiesero la morte di Gesù. Né sono solo gli ebrei che ne sono responsabili, perché la croce, che ci salva tutti, rivela che Cristo è morto a causa dei peccati di tutti noi.
Ricordare a tutti i genitori ed educatori cristiani la grave responsabilità in cui essi incorrono nel presentare il Vangelo e sopratutto il racconto della Passione in un modo semplicista. In effetti, essi rischiano in questo modo di ispirare, lo vogliano o no, avversione nella coscienza o nel subcosciente dei loro bambini o uditori. Psicologicamente parlando, negli animi semplici, mossi da un ardente amore e da una viva compassione per il Salvatore crocifisso, l’orrore che si prova in modo così naturale verso i persecutori di Gesù, si cambierà facilmente in odio generalizzato per gli ebrei di tutti i tempi, compresi quelli di oggi.
- Evitare di riferire le maledizioni della Scrittura e il grido della folla eccitata: «che il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli», senza ricordare che quel grido non potrebbe prevalere sulla preghiera infinitamente più potente di Gesù: «Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno».
- Evitare di dare credito all’empia opinione che il popolo ebraico è riprovato, maledetto, riservato a un destino di sofferenza.
- Evitare di parlare degli ebrei come se essi non fossero stati i primi ad appartenere alla Chiesa.
Storico francese ebreo, Jules Isaac (18 novembre 1877 - 6 settembre 1963) fu perseguitato durante il governo filonazista di Vichy e sua moglie e sua figlia furono uccise ad Auschwitz, dove erano state deportate.
Jules Isaac è stato uno dei fondatori, nel 1947, del gruppo Amitié judéo-chrétienne e uno degli ispiratori della Conferenza di Seelisberg, dove ebbe un peso decisivo nella stesura del documento finale intitolato I dieci punti di Seelisberg.
Nel 1948 ha pubblicato il libro Gesù e Israele, un’opera che intende favorire una miglior comprensione delle origini ebraiche del cristianesimo e che è stata una pietra miliare nel dialogo fra ebrei e cristiani.
Nel 1960 Jules Isaac fu ricevuto da Giovanni XXIII. Nel corso dell’udienza Isaac consegnò al papa un documento il cui contenuto si può così riassumere:
nei rapporti con gli ebrei un certo «insegnamento del disprezzo», unito a un vero e proprio «sistema di avvilimento» esiste ancora nella Chiesa! L’opinione cattolica è incerta fra due tendenze opposte... «È indispensabile perciò che si levi una voce dall’alto... la voce del Capo della Chiesa, per indicare a tutti la strada giusta, e condannare solennemente questo "insegnamento del disprezzo" che nella sua essenza è anticristiano».
Mons. Capovilla, segretario del papa, testimonia che fu quello il giorno in cui Giovanni XXIII decise che il futuro concilio Vaticano II si dovesse occupare anche della questione ebraica e dell’antisemitismo.
Per questo il papa affidò al cardinale Agostino Bea, già presidente del Segretariato per l’unità dei cristiani, l’incarico riguardante le relazioni con il popolo ebraico, il popolo eletto dell’Antico Testamento.
Lo Schema elaborato dal card. Bea per i lavori del concilio fu alla base della dichiarazione conciliare Nostra Aetate.
In memoria dei numerosi eventi luttuosi della loro storia, gli ebrei celebrano il Tisha BeAv, un giorno di lutto e di digiuno che cade il 9 del mese di Av del calendario religioso ebraico (corrispondente più o meno al nostro mese di luglio).
In questa giornata vengono ricordati gli importanti eventi storici che hanno condizionato negativamente la storia successiva del popolo ebraico:
● la distruzione del primo Tempio di Gerusalemme da parte di Nabucodonosor (586 a.C.)
● la distruzione del secondo Tempio da parte delle truppe di Tito (70 d.C.)
● la sconfitta degli insorti guidati da Bar Kochba, che si era proclamato «messia» (135 d.C.)
● la distruzione di Gerusalemme ai tempi dell’imperatore Adriano (136 d.C.) e l’espulsione degli ebrei dalla città.
Nel tempo, il Tisha BeAv è diventato il giorno ebraico della memoria anche delle tragedie successive al II secolo, avvenute temporalmente intorno a questa data (il mese di luglio).
Vengono così ricordati anche i seguenti fatti:
●l’espulsione degli ebrei dall'Inghilterra nel 1290
●l’espulsione degli ebrei dalla Spagna nel 1492
● l’inizio, nel 1914, della prima guerra mondiale, avvenimento che costituì l'antecedente per l’affermarsi di ideologie violente e totalitarie che portarono all’Olocausto
● la deportazione degli ebrei dal Ghetto di Varsavia a Treblinka, nel 1942.
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Le regole alimentari religiose ebraiche riguardano anzitutto la distinzione tra i cibi «puri», cioè che è consentito mangiare, e cibi «impuri», di cui è vietato cibarsi.
Particolare attenzione è rivolta ai cibi di origine animale: la carne può essere mangiata solo se proveniente da animali puri.
Per poter essere mangiati, gli animali permessi (esclusi i pesci) devono essere uccisi in modo particolare: la macellazione rituale prevede infatti il taglio della trachea e dell’esofago dell’animale mediante una lama affilatissima. L’obiettivo è ottenere una morte il più rapida e indolore possibile per l’animale e, contemporaneamente, un rapido e abbondante dissanguamento.
Il divieto di mangiare sangue, infatti, è una proibizione fondamentale della legge ebraica. Per assicurarsi che non contengano sangue, le carni sono sottoposte a particolare lavorazione e salatura.
Fra le regole che riguardano la preparazioni dei cibi molto importante è anche il divieto di mescolare il latte e i suoi derivati con la carne. Per questo motivo nelle case degli ebrei ortodossi esistono due zone della cucina in cui si cucinano i cibi contenenti latte o carne, due frigoriferi, due batterie di tegami, due lavelli ecc.
I ristoranti che offrono ai clienti ebrei cibo kosher, cioè «puro» in quanto preparato secondo le regole alimentari dell’ebraismo, sono generalmente specializzati in pranzi «di latte» o in pranzi «di carne», oppure, quando si tratta di ristoranti che devono accontentare una clientela internazionale, servono l’uno o l’altro dei pranzi in giorni della settimana prefissati.
Quando si tratta invece di ristoranti frequentati prevalentemente da ebrei, generalmente viene servito al mattino un pranzo «di latte» e la sera un pranzo «di carne».
Al mattino dunque si potrà scegliere la colazione a buffet fra dolci, torte, pani e panini dolci e salati, cereali, frutta fresca, secca o in scatola, marmellate, verdure, sottaceti, pesce fresco o conservato, uova sode o strapazzate, yogurt e formaggi, latte, succhi di frutta, caffè…
Si cercherebbero invano, invece, i vassoi con gli affettati, che si troveranno in un pranzo «di carne» e che naturalmente saranno fatti rigorosamente con carne di pollo, tacchino o vitello, con l’esclusione assoluta del maiale, animale impuro.
La sera, invece, nel pranzo «di carne» saranno servite carni con verdure e cereali, pane, dolci e frutta. Chi però volesse finire con un bel gelato alla panna e un caffè con uno spruzzo di latte non riuscirebbe ad averli, a meno che al posto del latte di mucca e relativa panna il cuoco non avesse usato derivati della soia (che è un vegetale). In questo caso il gelato e il caffè sarebbero «parve», cioè non contenenti latte, e potrebbero essere serviti come dessert di un pranzo «di carne».
Immaginiamo ora di passeggiare all’ora di cena, per esempio, nel quartiere di Roma in cui un tempo c’era il Ghetto e di volere cenare. Entriamo in un ristorante «di carne» e apriamo il menù.
Ci verranno proposti cibi che appartengono in parte alla cucina romana o italiana, ma sono preparati e cucinati secondo le regole della kashrut (= purità). C’è la carne, che deve arrivare da animali perfettamente sani, macellati secondo il rituale, e ci sono le uova da controllare per essere certi che non contengano neppure una traccia di sangue o altre impurità. Possiamo essere certi che tutte le verdure sono state lavate con sale, bicarbonato o amuchina, 7 o 8 volte, e che la lattuga è stata lavata foglia per foglia, per assicurarsi che non ci siano piccoli insetti nascosti. Uguale precauzione si ha per la farina, che viene setacciata.
Trattandosi di un ristorante «di carne», i prodotti utilizzati non devono contenere latte o latticini.
Possiamo così scegliere, per esempio, tra goulash, baccalà con uva passa e pinoli, carciofi alla giudia, pollo fritto, stracotto con polenta di farina bianca ecc.
Possiamo notare che il pesce può essere servito sia nei pranzi «di latte» che in quelli «di carne».
Scorrendo il menù troviamo anche degli involtini di verza, un piatto che viene servito al termine di una delle feste principali ebraiche, quella di Sukkot (festa delle Capanne). Essa termina con una celebrazione gioiosa: Simhà Torah («Gioia della Legge»), festa in cui i rotoli della Scrittura vengono portati in processione, accompagnati da balli e da canti. Le foglie arrotolate della verza alludono ai rotoli della Scrittura.
Possiamo terminare con un dolce: frittelle di mele, per esempio, o couscous dolce, o salame di cioccolato…
E ora: Beteavòn! (Buon appetito!)
Non abbiamo voglia di mangiare carne? Possiamo allora proseguire e dirigerci verso un ristorante «di latte».
Anche qui i cuochi si sono attenuti scrupolosamente alle regole della kashrut: i prodotti industriali utilizzati non conterranno grassi animali.
Possiamo iniziare con una serie di crêpes o un piatto di cannelloni di melanzane o una zuppa di piselli o di peperoni, con latte e panna; possiamo proseguire con involtini di salmone o altri piatti di pesce e terminare, per esempio, con un dessert a base di datteri ripieni o una torta di frutti di bosco, con pastafrolla e crema…
E, ancora una volta: Beteavòn!
Possiamo aggiungere che la scelta tra un pranzo «di latte» e un pranzo «di carne» a volte è determinata da motivi religiosi, legati alle feste.
● Abbiamo già visto il significato simbolico degli involtini di verza, legato alla feste delle Capanne; per la festa di Pentecoste (Shavuòt) si usa mangiare latticini. Questa festa ebraica ricorda la rivelazione di Dio sul monte Sinai, quando fu donata al popolo la Legge: come l’agnellino ha bisogno del latte, così il popolo di Israele si nutre della Legge di Dio, il cui studio è dolce come «latte e miele».
● La festa di Chanukkà ricorda un miracolo avvenuto nel 165 a.C., quando gli ebrei, guidati da Giuda Maccabeo, entrarono in Gerusalemme dopo aver sconfitto l’esercito siriano. In occasione della riconsacrazione del Tempio fu trovata una piccolissima ampolla d’olio puro, con il sigillo del sommo sacerdote. La quantità era appena sufficiente ad accendere il grande candelabro per un giorno, ciò nonostante esso prodigiosamente bruciò otto giorni, dando così la possibilità ai sacerdoti di prepararne dell'altro nuovo. In ricordo di quel miracolo e di quella vittoria gli ebrei accendono per otto sere consecutive un lume di una speciale lampada ad otto beccucci, fino a quando sono accese tutte. In collegamento con questo miracolo dell’olio, è usanza preparare per questa festa cibi fritti, sia dolci che salati.
Animali puri e impuri
Se si tratta di mammiferi, devono essere ruminanti e avere lo zoccolo spaccato (bovini, ovini e cervidi). Sono invece impuri i suini, gli equini e tutti gli altri animali terrestri.
Fra gli uccelli, vengono considerati puri il pollame e specie simili, quali il tacchino (che era sconosciuto di qua dall'Atlantico in tempi biblici), la faraona e simili; i palmipedi, come anatra e oca. Sono considerati impuri lo struzzo e tutti i rapaci.
Gli animali acquatici devono avere pinne e squame. Sono quindi proibiti tutti gli invertebrati (frutti di mare) e i pesci senza squame (anguille, storioni ecc.).
Da notare che i concetti di purità e impurità non si riferiscano alla sfera morale della vita. Sono invece situazioni oggettive, senza che ciò costituisca una colpa.
Nella Bibbia è scritto: «Non farai cuocere un capretto nel latte di sua madre» (Dt 14,21):
è una regola che esprime il rispetto per la vita.
Ricette da provare
Carciofi alla giudia
Ingredienti: 12 carciofi romaneschi,1 litro di olio,
sale, pepe, limone o aceto.
Pulire i carciofi lasciandoli con un pezzo di gambo, immergerli nell’acqua acidulata. Batterli uno contro l’altro perché le foglie comincino ad aprirsi. Metterci sale, pepe e disporli in un tegame con olio abbondante e un pochino d’acqua. Quando sono a buon punto, toglierli, aprirli delicatamente con due forchette per formare una "rosa sbocciata". Messi con il gambo in alto su un piatto, manterranno questa forma fino alla frittura. Versare olio abbondante in una padella e un’ora prima di servirli in tavola, prenderli per il gambo e metterli a friggere voltandoli delicatamente perché si possa dorare anche il gambo. Quando sono arrivati a buon punto di cottura, spruzzarli di acqua, il che serve a far imbiondire le foglie. Scolarli e servirli ben caldi.
Involtini di verza
Scottare in acqua salata per 4-5 minuti le foglie di verza, avendo cura di scegliere le più grandi e ben conservate. Togliere le foglie dall’acqua con delicatezza usando una schiumarola e porle su uno strofinaccio pulito per eliminare più acqua possibile.
A parte preparare l’impasto delle polpette: tritare le patate, unirle alla carne, amalgamare bene aggiungendo le uova crude e il prezzemolo. Salare l’impasto, fare delle polpettine ovali e passarle nella farina. Mettere ogni polpettina in una foglia di verza e legare con lo spago per fare gli involtini. Aggiungere pepe a piacere.
Cuocere in padella antiaderente con olio a fuoco basso aggiungendo il brodo ogni 10 minuti. Il brodo deve ritirarsi in modo da lasciare comunque che gli involtini non siano troppo asciutti.
Si può servire questo piatto con un contorno oppure su un letto di riso cotto nel brodo e fatto poi ritirare.
Couscous dolce
Ingredienti (per 6 persone): Couscous precotto 500 g, burro 200 g, cannella 1 cucchiaio abbondante, zucchero 150-200 g, uvetta 150 g, 2 arance.
Cuocere il couscous per pochi minuti come indicato nella scatola; aggiungere il burro e lo zucchero mescolando bene. A parte tenere a mollo in acqua bollente le uvette per 10 minuti. Aggiungerle al couscous dopo averle ben strizzate. Decorare il piatto con fette di arance, tagliate fini, passate prima nello zucchero.
Cannelloni di melanzane
Ingredienti: 1 melanzana alla griglia, 200 g di tonno fresco, 200 g di ricotta, 1 spicchio di aglio, 1 dl di sugo pomodoro, gruviera tagliato a fettine.
Tritare il tonno e mescolarlo con la ricotta e l'aglio; condire col sale e pepe. Quando le melanzane saranno cotte, stenderle e farcirle. Arrotolare le melanzane, ricoprirle di sugo pomodoro e disporre le fettine di gruviera.
Gratinare al forno.
Datteri farciti
Ingredienti: 15-20 datteri, 300 g di mandorle, 250 g di zucchero, scorza di limone grattugiata.
Pelare e tritare, pestandole al mortaio, le mandorle precedentemente asciugate al forno. Unire lo zucchero e la scorza di limone grattugiata. Aprire un po’ i datteri per togliere il nocciolo al posto del quale si metterà una piccola quantità di marzapane. Non richiudere il dattero completamente perché si veda un po’ all’interno.
Con lo stesso sistema si possono farcire le prugne secche e si usa fare così anche con le noci mettendo il marzapane fra i due gherigli.
Haroset (una delle possibili varianti)
Ingredienti: 300 g di mandorle dolci abbrustolite, 350 g di mandorle amare, 4 cucchiai di zucchero,4 tuorli di uovo sodo, 500 g di mele, succo di 2 o 3 arance oppure un po’ di vino bianco o cognac (solo se kasher), 1 azzima comune, 1 o 2 azzime dolci, 200 g di castagne lesse.
Pestare il tutto e formare una pasta non troppo dura.
Zucchine alla concia
Ingredienti: 1500 g di zucchine romanesche, 100 g di aceto di vino bianco, 3/4 spicchi di aglio, basilico abbondante, sale pepe q.b., olio per friggere.
Si lavano le zucchine e si affettano sottili per il lungo, poi si allineano su un telo, facendone vari strati; si avvolgono nel telo e si lasciano riposare per 24 ore. Nel frattempo si fanno macerare nell’aceto gli spicchi d’aglio tagliati a fettine e le foglie di basilico. Dopo 24 ore si friggono le zucchine e le si lascia scolare su un foglio di carta assorbente. Si pongono poi in un recipiente, alternando uno strato di zucchine e uno di aceto con l’aglio e il basilico. Si lascia riposare ancora per 24; poi si capovolgono in un altro contenitore e si lascia riposare ancora fino al giorno dopo.
È considerato un piatto romanesco, ma la sua origine è ebraica.
● La cena pasquale, infine, prevede dei cibi rituali, che devono essere sempre presenti. In mezzo alla tavola viene posto un piatto: al centro sono poste tre azzime (pane non lievitato) per ricordare la precipitosa fuga dall'Egitto. Attorno, nell'ordine, vi sono il karpas, solitamente un gambo di sedano che ricorda la stagione primaverile; un piatto di maror o erbe amare che rappresenta la durezza della schiavitù; una zampa arrostita di capretto chiamata zeru’a che rappresenta l'offerta dell'agnello presso il Tempio di Gerusalemme quando ancora esisteva; un uovo sodo, in ebraico beitza, in ricordo del lutto per la distruzione del Tempio; infine una sorta di marmellata preparata con frutta secca, noccioline e vino chiamata haroset, che rappresenta la malta usata dagli ebrei durante i lavori forzati in Egitto.
* * *
A partire dagli Stati Uniti, ma ormai anche in Italia, si va diffondendo, l’uso di richiedere prodotti kosher anche tra non ebrei.
Secondo una ricerca Eurispes, « le aziende che nel nostro paese decidono di farsi certificare kosher sono in crescita. Grandi realtà […], che pare sfiorino un fatturato di oltre 300 milioni di dollari, hanno linee dedicate. Poi c’è la carne, che può essere consumata anche dai musulmani».
La lista della spesa supervisionata dalle autorità rabbiniche è lunga: gelati, aceto balsamico, latte, pelati, persino le caramelle. Anche sul vino esiste un controllo completo, dalla pigiatura fino all’etichettatura e all’imballo.
Tutti i macchinari devono essere puliti perché non ci sia neppure l’eventualità che si mischino le uve e non è possibile aggiungere alcun’altra sostanza, a cominciare dai coloranti.
Da Milano a Torino, da Firenze a Roma, dove è presente la comunità ebraica più grande d’Italia, sono sempre di più i ristoranti e i negozi kosher.
A Roma, vicino a Fontana di Trevi, è nato un fast-food kosher che è il più grande d’Europa: tre piani e 250 posti a sedere. Qui, i menù tipici dei fast-food possono essere consumati da ebrei ortodossi e, al posto dei tradizionali hamburger, si servono anche panini e piatti della cucina giudaico-romanesca: dal Concia-Burger, a base di carne e zucchine alla concia, ai carciofi alla giudia, dai filetti di baccalà al panino con la cicoria e allo straccetti-sandwich. La clientela, secondo le dichiarazioni del direttore, per il 70% non è di religione ebraica.
- Esercizio 1 - I pilastri dell’islam
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- Esercizio 2 -A tavola con le grandi religioni
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