L’Ordine Certosino fu fondato da san Bruno di Colonia, con alcuni compagni, nel 1084 in Francia. Egli infatti desiderava vivere in solitudine, lontano dalle drammatiche vicissitudini dell’XI secolo. Per questo i certosini vivono in piccole comunità, in solitudine e si dedicano a una vita contemplativa.

Sempre pronti a dare cibo ai poveri (i periodi di carestia nel passato erano, purtroppo, assai frequenti), i certosini non mancavano di sopperire alle necessità alimentari anche dei pellegrini.

Il cappuccio di fra Cipolla
Sappiamo che i certosini non erano gli unici a occuparsi dei viaggiatori diretti verso le città sante di Roma o Gerusalemme: ricordiamo, ad esempio, l’Ordine religioso-cavalleresco del Tau, dedito anch’esso, oltre che all’assistenza dei pellegrini, anche alla manutenzione delle strade, dei navigli e dei ponti. In particolare l’Ordine del Tau è rimasto famoso perché era solito tenere sempre vivo il calderon d’Altopascio (siamo in Toscana): una enorme pentola sempre a disposizione per cuocere zuppe per i viandanti, in particolare pasta e fagioli. Traccia di questa attività dell’Ordine del Tau è descritta da Giovanni Boccaccio (Decamerone, giornata VI, novella X), che ci racconta di fra Cipolla (già il nome!) e del suo servo, Guccio Porco (anche questo nome la dice lunga!) che aveva un “cappuccio sovra il quale era tanto untume che avrebbe condito il calderon d’Altopascio”.

La Certosa

«Certosa» è chiamato lo spazio chiuso della città monastica (nel senso del monastero certosino): il monastero è infatti un recinto spirituale, un luogo che protegge. Le mura separano la Certosa dal mondo: essa rappresenta la Gerusalemme celeste sulla terra. È luogo che già nella sua configurazione voleva mostrare «ora e adesso» quello che ci aspetta nell’aldilà: le porte chiudono all’esterno ma aprono verso il Paradiso. In questo senso la Certosa rimanda alla Chiesa delle origini e trova la sua ragion d’essere innanzitutto nella Parola di Dio, là dove prende in considerazione Mosè, Elia, il deserto. Esprime l’ideale di separazione e di distacco dal mondo, di ricerca di Dio nel silenzio e nella solitudine.

Ecco perché la cella del monaco è un luogo del tutto particolare. Nel Secondo libro dei Re si legge: «Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere, così, venendo da noi, vi si potrà ritirare» (4,10). La cella ha infatti un significato ricchissimo e sempre positivo. Quando sentiamo che qualcuno è “finito in cella” percepiamo subito l’idea di prigione, l’abitare un luogo chiuso per imposizione, per scontare una pena. Ma non è così nel mondo monastico: anzi, è proprio l’opposto!

Tutto è dimensionato per l’essenziale (una piccola stanza) che però è significa è “ricca” di un letto, per il riposo; di un tavolo e una sedia per leggere e scrivere; di una lampada sempre accesa, anche di notte, in attesa dell’Ospite (quello con la “O” maiuscola!).

La spiritualità certosina scaturisce dalla meditazione e dalla contemplazione. La vita eremitica si fonda sulle Scritture; sono presi in grande considerazione i passi dei Vangeli dove si trovano l’invito al silenzio, alla preghiera, all’obbedienza: tutte virtù ascetiche abbracciate dal monaco: «quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà» (Vangelo di Marco 6,6)

Per questo il certosino vive nella solitudine, nel silenzio, nell’essenzialità: non per smettere di vivere ma per vivere in un modo diverso. Solitudine e silenzio sono tratti essenziali – anche a tavola, come vedremo – che si rifanno alle Sacre Scritture.

Il cenobio certosino

La solitudine e il silenzio non impediscono il lavoro manuale. Esso affianca la contemplazione e insieme testimoniano il felice incontro tra l’eremitismo anacoretico orientale con la vita e la preghiera collettiva di matrice occidentale. In questo senso il “ritorno” al deserto diventa il rimedio contro i mali dell’epoca: il cenobitismo benedettino trova, con i certosini, un rinnovato vigore.

I certosini sono organizzati scrupolosamente: uno o più conversi dirigono e fanno lavorare fattorie e ampie proprietà rurali. Si mira all’autosufficienza del cenobio: il monaco, così, è libero da ogni preoccupazione e tutto dedito alla spiritualità…. E al tempo stesso diventa “esperto” in campo alimentare!

Il chiostro, centro operativo della Certosa, è caratterizzato da un cortile, chiamato spesso “piazza”. Da qui si accede solitamente alle diverse realtà operative – quindi strettamente connesse con l’alimentazione – quali: il frantoio, la cantina, i granai, il mulino, l’ulivaio, il porcile, le stalle, l’orto, il pollaio, il fienile. Ovviamente c’è anche altro, ad es. le botteghe del fabbro e del vetraio ma la componente alimentare riveste molta attenzione, anche per chi fugge il mondo e la mondanità.

La giornata del certosino è davvero alternativa al nostro ritmo di vita. Vediamola:

ore 3,30
Mattutino (dura 2-3 ore)
ore 7,15
Messa conventuale cantata
ore 15,00
Vespri
ore 17,30-18,30
Compieta
Dopo circa cinque ore, il padre sacrista, suona la campana del Mattutino.
Tra il primo suono (22,30) e il secondo suono (23,00) c’è la Veglia

 

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