Nell’antica Grecia, durante il simposio non mancava il momento del gioco. Il cottabo era il più diffuso. Si tratta di un gioco in uso nei banchetti già presso i Greci e gli Etruschi (probabilmente di origine sicula), da cui si traevano presagi, specialmente di amore. Consisteva nel lanciare il vino contenuto in una coppa in modo da colpire un bersaglio, rappresentato da piccoli vasi galleggianti in un catino pieno d’acqua, o da un dischetto di rame posto in bilico all’estremità di un’asta metallica.

Descritto da vari poeti e scrittori greci e oggetto di varie rappresentazioni pittoriche su vasi e crateri, il gioco continuò ancora fino al III secolo a.C. poi cadde in disuso. Altri giochi molto apprezzati erano i dadi, giochi da tavolo, giochi di equilibrio (ad esempio: mantenersi in equilibrio su un otre pieno). Poi anche indovinelli, scherzi, ecc. In epoca più tarda, il simposio divenne anche occasione per tenere discorsi e dibattiti.

Al termine del simposio non poteva mancare la baldoria per strada: il corteo dei commensali usciva dalla stanza e si inoltrava per le strade della città dirigendosi in luoghi più appartati spesso accompagnati da flautiste. È il rito del komos. Dopo il simposio si trattava di portare allegria per strada: di fatto, siamo in presenza di un certo «esibizionismo rituale».

La parola greca komos indica la festa; komos oidè significa «festa e canto» e da qui è derivata la nostra parola «commedia». Si trattava infatti di una festa celebrata dopo la vendemmia in onore di Dioniso, dio del vino, con una processione nella quale i devoti, mascherati da capri (tragoi) cioè i satiri, portavano in giro sopra un carro il simbolo della fecondità.

Quest’uso ha la sua origine nel mito dello smembramento di Dioniso, fatto a pezzi dai Titani. Lo storico greco Plutarco descrive succintamente una processione:

in testa venivano portati un’anfora piena di vino e un ramo di vite, poi c’era un uomo che trascinava un caprone per il sacrificio, seguito da un cesto di fichi e infine qualcuno portava un fallo” (De cupiditate divitiarum VIII, 527 D).

Anche Platone, in uno dei suoi dialoghi, intitolato appunto Simposio, traccia un profilo del filosofo Socrate, presentandolo come il bevitore ideale, perché usa il vino per perseguire la verità mantenendo sempre il controllo di sé.

Sempre Platone, in Repubblica, un altro dialogo, si serve di Socrate per denunciare i sostenitori della democrazia, classificandoli come malvagi vinai che incoraggiano ad abbandonarsi al "vino forte" della libertà. Il potere è visto come il vino: consumato in grandi quantità da persone poco abituate può ubriacare. Il risultato sarebbe il caos.

Tuttavia, proprio per queste ragioni, Platone suggerisce che più si è anziani più si dovrebbe bere vino. Infatti, allentando i freni inibitori, gli anziani, sempre austeri, potevano in occasione delle feste, bevendo vino ballare, danzare, travestirsi ma senza cadere in quegli eccessi senz’altro presenti nel popolo e disapprovati dal filosofo.

 

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