Non è difficile incontrare persone che (magari anche solo in modo superficiale) preferiscono evitare situazioni, numeri, colori, persone… cioè tutto ciò che le induce a pensare che, se capita loro qualcosa di negativo o sgradito, la colpa (!) sia, appunto, della situazione, del numero, del colore…
La nostra attenzione è rivolta qui, ovviamente, alla tavola e all’alimentazione. Il tema, tuttavia, abbraccia tanti aspetti della nostra vita – per chi ci crede, ovviamente! – e rimane un dato di fatto che le “ragioni” alla base di queste credenze troppo spesso chiamino in causa, maldestramente e inopportunamente, le religioni.
Fonti primarie per tentare di capire il “fenomeno” delle superstizioni sono l’epoca romana e il diffondersi del cristianesimo. Perché incrociamo le dita? Chi lo fa, forse dovrebbe sapere che per alcuni rimanda al segno di croce usata dai primi cristiani. Facciamo alcuni esempi.
Pensiamo a quante persone cercano di evitare il numero 17 e chiediamoci perché. Una ragione “scientifica” ovviamente è del tutto assente. Né può essere trovata raccontando che un certo giorno 17 sono successe alcune cose negative (basterebbe riflettere su tutte le giornate con lo stesso numero e ricordare cosa NON è successo!).
Probabilmente, per tentare una risposta, è necessario chiamare in causa la lingua latina e i numeri romani, coi quali il 17 (che, scritto così, come sappiamo, è un numero arabo) si scrive: XVII.
È vero che, utilizzando gli stessi caratteri del numero romano, potremmo formare la parola vixi, che traduciamo come “vissi/ho vissuto”, lasciando intendere un’esperienza trascorsa e conclusa definitivamente, dunque appartenente a una vita passata, con chiaro riferimento alla morte.
Figurarsi allora se capita un venerdì 17!
L’affermazione del cristianesimo, dopo tre secoli di persecuzioni, portò una certa diffusione del pensiero e della vita di Gesù Cristo. Volendo allora individuare un giorno della settimana particolarmente negativo, cosa c’era di “meglio” del venerdì, il giorno della morte del Salvatore? Sappiamo, infatti, dai Vangeli che il Nazareno morì il giorno di venerdì: «Il giorno seguente, quello dopo la Parasceve, si riunirono presso Pilato i capi dei sacerdoti e i farisei…» (Matteo 27,62); «Venuta ormai la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato…» (Marco 15,42)
L’evangelista Luca, a proposito della sepoltura di Gesù scrive: «Era il giorno della Parasceve e già splendevano le luci del sabato» (Lc 23,54).
Anche l’autore del quarto Vangelo conferma che la morte di Gesù avvenne il giorno precedente quello che preparava “Parasceve”, che cadeva di sabato: quindi di venerdì: «Era il giorno della Parasceve e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato -, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via (Giovanni 19,31)
Logico, quindi, che i cristiani celebrassero il venerdì come un giorno particolare: non a caso, proprio nei venerdì di Quaresima, i cristiani vivono una dieta particolare; a maggior ragione, il Venerdì santo, cioè il giorno in cui si ricorda la morte del Salvatore, la Chiesa invita al digiuno completo.
Rimanendo in un contesto “negativo”, anche le credenze relative al gatto nero costituiscono la conferma dei continui richiami e influenze che le culture e le religioni costruiscono nel corso dei secoli. La sostanza comunque rimane storica e non certo soprannaturale. Infatti il gatto, nell’antichità, così come moltissimi altri animali, era ritenuto una divinità o comunque era considerato portatore di valori “spirituali” che mettevano in relazione l’uomo con l’ “Altro”, quello con la A maiuscola, il Trascendente. Pensiamo infatti agli antichi egizi: uno dei monumenti più noti della loro cultura è la Sfinge con tanto di testa umana e corpo da felino (anche se più leone che gatto).
Presso i fenici, invece, proprio al gatto si riconosceva un valore maggiore. Sappiamo che quel popolo dominava il Mediterraneo: abili navigatori non avevano concorrenti nello scambio di merci (quindi, facevano affari d’oro!) e nell’arte …della pirateria. Incrociare una loro nave pirata significava morte certa. Si può comprendere, così, quale sentimento provassero i marinai vedendo arrivare una nave pirata fenicia, riconoscibile, probabilmente, proprio per l’abitudine di portare con loro quella che ritenevano una divinità: un gatto nero. Avvistare il gatto nero, in quel contesto, voleva dire perciò morte certa o quantomeno una vita da schiavi.
L’arrivo del cristianesimo non scalzò molte di queste convinzioni. Semplicemente, esse vennero aggiornate e modificate nel tempo. Spariti i pirati fenici, ecco che il gatto nero, simbolo di morte e quindi del male, viene associato ad altre realtà. Ad esempio alle streghe.
Il felino era davvero ben conosciuto nell’antichità: in modi diversi era considerato “divinità” nell’antica India (Sasti); in Egitto (Bastet e Iside); in Grecia (Artemide); nell’antica Roma (Diana)
Eppure… sarà che, in quanto felino, è un cacciatore, un predatore, reso di fatto “invisibile” per il colore nero che, di notte lo rende “trasparente” cioè non rilevabile dagli occhi umani, oppure sarà in ricordo dei collegamenti alle divinità pagane, tutto ciò portò ad associarlo a categorie di persone poco gradite. Anzi, ricercate e combattute.
Anche la Chiesa contribuì a “colpevolizzare” l’animale dal colore nero: Gregorio IX nel 1233 nella bolla Vox in Rama associa il gatto nero a satana, all’oscurità, al male.
Nelle rappresentazioni medievali, accanto alle streghe venivano raffigurati molti animali: tra questi primeggiava il gatto nero, simboleggiante il male da combattere.
Verrebbe da dire: altri tempi! Ma, ancora oggi, non mancano coloro che preferiscono fermarsi davanti ad un gatto nero che attraversa la strada…
Non è comunque pensabile associare al gatto solo delle superstizioni. Non sono mancati infatti autori molto autorevoli capaci, a modo loro, di riflessioni assai diverse su questo felino, quali: Pablo Neruda (Ode al gatto), Jorge Luis Borges (A un gatto) ed Eugenio Montale (Di un gatto sperduto).
Il gatto nell’islam |
Il gatto è un animale da sempre apprezzato dalla cultura islamica. Esistono molti racconti che lo presentano in chiave “misterica” e affidabile, mai come nemico da combattere e condannare. Si pensi, ad esempio, che lo stesso Muhammad amava stare in compagnia di Muezza, un gatta. |
Abbiamo già notato come la superstizione affondi nel passato. Spesso facciamo riferimento all’epoca romana, perché, come è noto, in Occidente quella cultura e quella religione segnarono la vita dell’uomo per circa mille anni.
Per fare un esempio “positivo” possiamo proporre il ferro di cavallo, un oggetto ancora molto conosciuto, benché l’animale sia relegato in un contesto più contenuto rispetto al passato.
Oggi, ad esempio, i cavalli non vengono più impiegati in guerra, ma in passato facevano la differenza. Ed erano segno di collocazione sociale, infatti le legioni romane, costituite da fanti, erano guidate da ufficiali a cavallo.
Pertanto, quando capitava che il cavallo del comandante perdesse un ferro, per i legionari, che procedevano a piedi, significava un momento di riposo e di pausa nelle lunghe e difficili marce… dunque una vera fortuna perché l’evento concedeva l’occasione di potersi riposare e sostare qualche istante!