Come tutti gli ebrei, anche il Maestro “saliva” a Gerusalemme per Pesach: nei Vangeli la partecipazione di Gesù alla Pasqua ebraica appare un dato scontato. In questo contesto si inseriscono i testi che descrivono l’Ultima cena (Marco 14,22-25; Matteo 26,26-29; Luca 22,14-20; Prima lettera ai Corinzi 11,23-25), un episodio che per i cristiani non si riduce certo a una cena di addio. Il valore liturgico che il cristianesimo ricava da questi testi (senza dimenticare anche Giovanni 6 e 13,1-20) è decisivo per la fede: la liturgia eucaristica è un banchetto; l’altare è una tavola; tutti siamo commensali per condividere un pane e un vino che altro non sono se non il corpo e il sangue di Gesù Cristo.
L’autore del Quarto Vangelo è attento nel consegnarci molte immagini in cui Gesù, presentato in un contesto che lo lega al cibo e alle bevande. Tra gli episodi noti in questo senso, forse quello dell’apparizione del Risorto sul lago di Tiberiade (Giovanni 21,1-14) conosce uno spessore davvero particolare. Siamo, infatti, in un contesto di rivelazione, lo stesso che caratterizzava l’episodio delle nozze di Cana. (Giovanni 2,1-11) Del resto, il tema del pasto come luogo di rivelazione attraversa tutto il Quarto Vangelo (alle pericopi proposte sul libro se ne potrebbero aggiungere altre come Giovanni 4,31-38 e l’intero capitolo 6).
Nell’ultimo capitolo del quarto Vangelo è il Risorto che appare a Pietro e a un gruppo di fedeli. E mangia con loro. L’epifania divina raggiunge qui il vertice: prima l’evangelista si era servito del cibo per annunciare la missione data da Gesù ai discepoli (capitolo 4); poi aveva riportato le parole del Maestro durante la moltiplicazione dei pani (capitolo 6) per preparare la sua comunità a riceverlo prefigurando i tratti eucaristici nel cibo; infine, sulle rive del lago, Giovanni riconosce nel pasto un “luogo”, una epifania, una manifestazione divina, in cui il Verbo si fa “ri-conoscere”, desiderando ancora una volta di condividere la convivialità con l’uomo, consumando, in questo caso, pesce. È dunque Dio che cerca la comunione con gli uomini, è il Creatore che pasteggia con le creature.
Dei ventisette libri che costituiscono il canone neotestamentario, cinque costituiscono l’opera giovannea. Probabilmente non sono opera di una sola persona, quanto piuttosto di una “scuola”, diretta inizialmente dal discepolo e amico di Gesù, Giovanni, attorno al quale si è formata una comunità che ha provveduto ad altri libri. Nell’intera opera di Giovanni l’interesse, se così possiamo definirlo, per l’alimentazione è palese. Oltre ai quattro passaggi evangelici già ricordati (capitoli 2; 4; 6; 21) e tralasciando le tre Lettere (1Gv; 2Gv; 3Gv), ricordiamo che l’Apocalisse, il quinto testo attribuito a Giovanni, contiene anch’esso precisi riferimenti alimentari. Alle “nozze dell’Agnello” di cui si parla nel capitolo 19 abbiamo già accennato sul libro (Modulo 5.1). Qui vogliamo sottolineare come l’autore del testo che chiude il Nuovo Testamento (che - è proprio il caso di dirlo - si chiude in “gloria” con un banchetto!), probabilmente un discepolo di Giovanni, scriva appunto: «Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello!» (Apocalisse 19,9). E non dimentichiamo che, una volta invitati, il Signore ci promette che cenerà con noi e noi con lui (cf. Apocalisse 3,20). |