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Siti che gli archeologi indicano come Emmaus - Visita virtuale

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Alla scoperta del Gesù storico

I Vangeli non forniscono molte notizie storiche e tutto ciò che viene detto di Gesù è riletto alla luce della fede pasquale. Leggendo con attenzione le fonti evangeliche possiamo identificare due percorsi compiuti dai discepoli:
• Il primo ha origine prima della morte di Gesù e consiste in una progressiva scoperta della sua persona che con la predicazione, con le azioni, ma anche con la vita pratica si inserisce nel solco dell’insegnamento giudaico mettendolo in crisi su molti punti.
• Il secondo ha origine dopo la sua morte e risurrezione ed è di tipo regressivo. I discepoli dopo gli eventi pasquali rileggono l’esperienza compiuta con Gesù.
Questi percorsi segnano due momenti distinti della nascita del cristianesimo: il primo è caratterizzato dall’azione di Gesù, il secondo ha origine dagli eventi pasquali.

Il periodo storico in cui Gesù è vissuto

Volendo situare la vita di Gesù all’interno della storia dell’Impero romano, possiamo dire che egli nacque sotto Ottaviano Augusto (27 a.C.-14 d.C.) e morì sotto Tiberio (14-37 d.C.): al momento della sua nascita regnava in Palestina Erode il Grande, che morì nel 4 a.C. Alla morte di Erode la Palestina venne divisa fra tre dei suoi figli: Erode Antipa, Filippo e Archelao.
Erode Antipa fino al 39 d.C. fu tetrarca della Galilea e della Perea, vale a dire proprio la zona in cui Gesù passò la maggior parte della sua vita. A lui è attribuita l’incarcerazione e l’uccisione di Giovanni Battista e a lui fanno riferimento i Vangeli quando raccontano che Ponzio Pilato mandò Gesù da Erode. Filippo divenne tetrarca della Gaulanitide e, secondo Flavio Giuseppe, regnò in modo equilibrato. Archelao divenne etnarca della Giudea, della Samaria e dell’Idumea e regnò per dieci anni, fino al 6 d.C., quando fu destituito dai Romani, che decisero di annettere il suo territorio all’impero romano inviandovi un proprio governatore. Tra il 26 e il 36 d.C. il governatore fu Ponzio Pilato: la condanna a morte di Gesù venne eseguita nei primi anni del suo mandato. Secondo Filone di Alessandria, Pilato era un uomo testardo e crudele.

La questione del Gesù storico

Fino al momento in cui sorge il problema di andare alla ricerca del Gesù storico, il Gesù che veniva descritto dal Nuovo Testamento era accettato da tutti senza difficoltà. Fino alla fine del ’700 nessuno sollevò alcun dubbio sulla storicità del Gesù nel Nuovo Testamento: i fatti narrati, le sue parole, le parabole e i discorsi erano ritenuti storici alla stregua di una cronaca precisa e puntuale. Dal XIX secolo in poi invece ci si comincia a chiedere: il vero Gesù è quello dei Vangeli? In altre parole, alcuni studiosi mettono in dubbio che ci possa essere una corrispondenza tra il Cristo annunciato dalla Chiesa e il Gesù storico. Questa ricerca si è estesa in un lungo arco temporale ed ha mutato col tempo le sue caratteristiche. Vediamo molto schematicamente alcuni di questi momenti e la forma che assume la ricerca:
Old Quest: vede tra gli esponenti soprattutto Reimarus ed Albert Schweitzer.
No Quest: ricordiamo Bultmann, il quale nega che la ricostruzione storica su Gesù di Nazaret abbia rilevanza di tipo teologico.
New Quest: tra gli studiosi che vi hanno lavorato ricordiamo Käsemann e la sua reazione a Bultmann: non è impossibile che dal kerygma noi rintracciamo l’opera e il messaggio di Gesù di Nazaret.
Third Quest: si caratterizza per una nuova impostazione, ovvero vuole leggere la vicenda storica di Gesù a partire dall’ambiente giudaico in cui egli visse.

I fratelli di Gesù

Gesù aveva fratelli? Quando nei Vangeli leggiamo dei fratelli di Gesù dobbiamo tenere in considerazione l’accezione aramaica che implica tanto i fratelli carnali, quanto i primi cugini, ma si allarga anche ai parenti stretti. I fratelli di Gesù non sono mai indicati come figli di Maria. Qualcuno ha ritenuto che questi fratelli fossero figli di un altro matrimonio contratto da Giuseppe. Si parla di Giacomo come figlio di un’altra Maria. E Giacomo è segnalato come “fratello” di Gesù.
Tuttavia, se prendiamo in considerazione il Vangelo di Giovanni possiamo leggervi che nella scena della crocifissione Gesù affida Maria al discepolo amato. Questo particolare lascia intendere che Maria fosse sola, senza altri figli, altrimenti la scena non sarebbe credibile: anche considerando il periodo più tardo in cui venne scritto il Vangelo di Giovanni rispetto ai sinottici, la comunità non avrebbe certo dimenticato un dato così importante come l’esistenza di altri figli di Maria.

Un nuovo rapporto con un nuovo maestro

Un tempo le scuole pubbliche non esistevano. I bambini potevano imparare a leggere e a scrivere in casa. Raggiunta una certa età, se la famiglia ne possedeva le risorse, i bambini venivano affidati a un maestro che veniva retribuito per il suo lavoro. Spesso a casa di un maestro si formava una piccola classe di alunni, tuttavia alcuni potevano contare su un insegnamento individualizzato: in ogni caso, erano gli alunni che chiedevano al maestro di poter ricevere il suo insegnamento.
Nel caso di Gesù assistiamo a un completo capovolgimento: è Gesù che chiama dei discepoli e che propone loro di seguirlo. Per di più il suo insegnamento è gratuito; egli tuttavia chiede ai discepoli una scelta radicale, che si esprime in:
• Rinuncia a seppellire i morti (Mt 8,22)
• Rottura dei legami di parentela (Mt 10,37)
• Abbandono delle ricchezze (Mc 10,21)
Il discepolo deve essere addirittura pronto a dare la vita per causa sua (Mc 8,35). Gesù stesso dice che nessuno dei suoi discepoli potrebbe mai vantare di essere un dottore della Legge (Mt 23, 8-10), mentre proprio questo era lo scopo di coloro che frequentavano una scuola rabbinica.

Il segreto messianico

Nei Vangeli sinottici scopriamo che Gesù non ha cercato di abbagliare i suoi ascoltatori con gesti eccezionali, anzi la sua è stata una rivelazione discreta e progressiva. Gesù entra a poco a poco nella vita delle persone: culmine della sua rivelazione sarà la risurrezione. Sembra che Gesù voglia condurre ciascuno a scoprire chi è senza imporsi.
Gesù non chiede subito ai discepoli di credere in lui: la sua prima predicazione infatti ha come oggetto la venuta del Regno. Gesù chiede che chi lo ascolta accetti il Regno che sta per venire: «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15). È dunque questo il suo primo lieto annunzio.
Nel Vangelo di Marco Gesù ordina addirittura di fare silenzio sulla sua persona: è il segreto messianico (Mc 1,25; 3,12). L’obiettivo di Gesù è quello di suscitare l’attesa nei suoi ascoltatori. Tuttavia i segni che Gesù dà e l’originalità della sua predicazione obbligano chi lo ascolta a porsi la domanda fondamentale: «Chi è costui?». Più avanti, verso la fine della sua esistenza terrena, sarà lo stesso Gesù che chiederà ai discepoli di pronunciarsi circa la sua identità e la fede in lui: «E voi chi dite che io sia?» (Mc 8,29).
La fede in Gesù è necessaria affinché egli possa realizzare miracoli, ma non è sufficiente che gli uomini credano nei suoi poteri taumaturgici: è fondamentale che essi lo considerino e lo accettino come inviato di Dio.

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L’annuncio del Regno di Dio e i Vangeli

Tema centrale dell’insegnamento di Gesù è il Regno di Dio (Mt 4,23), che ricorre nei sinottici una settantina di volte ma che pervade ogni momento del racconto e che ben può essere riassunto nelle parole dell’evangelista Marco: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo». (Mc 1,15). Gesù però nei Vangeli non spiega mai apertamente che cosa sia il Regno di Dio e neppure dice quale rapporto ci sia tra la forma che questo regno ha ora e quella che avrà in futuro. Gesù dice che è vicino, che è a portata di mano, addirittura che è già qui e che è necessario agire con urgenza per poterne approfittare. Ma si tratta di una realtà poco appariscente, dalle origini modeste e nascoste, ed è necessario pregare affinché si realizzi. Anzi Gesù specifica che questo regno viene per alcune categorie di persone come i poveri ed è questa la ragione per cui essi possono dirsi beati. Il tema, che ha come sfondo la visione apocalittica del giudaismo del I secolo, non verrà ripreso dalla Chiesa primitiva.

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Le parabole

La parola “parabole” (in ebraico masal) indica molti mezzi, usati per comunicare, che si fondano tutti sulla possibilità di creare un esempio, una comparazione, un’analogia.
Perciò abbiamo :
• Proverbi:
Ma egli rispose: «Di certo voi mi citerete il proverbio: “Medico cura te stesso”. Quanto abbiamo udito che accade a Cafarnao fallo anche qui, nella tua patria». (Luca 4,23)

• Sentenze:
Osservando poi come gli invitati sceglievano i primi posti, disse loro una parabola: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più ragguardevole di te e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: cedigli il posto! Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto; invece quando sei invitato, và a metterti all’ultimo posto, perché venendo colui che ti ha invitato ti dica: amico, passa più avanti. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». (Luca 14, 7-10)

• Espressioni ed insegnamenti di tipo sapienziali:
«Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto:
Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano essi mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini». (Marco 7,6).

Ecco cosa dice Gesù a chi gli chiede perché parli in parabole:

Gli si avvicinarono allora i discepoli e gli dissero: «Perché parli loro in parabole?». Egli rispose: «Perché a voi è dato di conoscere i misteri del Regno dei cieli, ma a loro non è dato. Così a chi ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono. E così si adempie per loro la profezia di Isaia che dice: “voi udrete, ma non comprenderete, guarderete, ma non vedrete”. Perché il cuore di questo popolo si è indurito, sono diventati duri di orecchi, e hanno chiuso gli occhi, per non vedere con gli occhi, non sentire con gli orecchi e non intendere con il cuore e convertirsi, e io li risani. Ma beati i vostri occhi perché vedono e i vostri orecchi perché sentono. In verità vi dico: molti profeti e giusti hanno desiderato vedere ciò che voi vedete, e non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, e non l’udirono!». (Matteo 13,10-17).

Tutte queste cose Gesù disse in parabole e non parlava ad essa se non in parabole, perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta: “Aprirò la mia bocca in parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”. (Matteo 13, 34-35).

Le parole di Gesù
I Vangeli ci riportano alcune parole come pronunciate direttamente da Gesù e alcune direttamente in aramaico (Talita Kum... Effatà). Quanto ai generi letterari utilizzati da Gesù, possiamo ricordare:
• Brevi sentenze isolate, brevi frasi: (Mt 4,17). Gesù può aver utilizzato anche detti giudaici del tempo.
• Discorso: più detti di Gesù vengono uniti per formare un discorso. Un esempio può essere il discorso della montagna (Mt 5-7).
• Apoftegma: si tratta di un breve detto inserito come frase centrale in un racconto che viene utilizzato a mo’ di cornice (“il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”).
• Parabole: le narrazioni hanno in genere come tema il Regno di Dio.

Le parabole di Gesù e noi

Qual è l’effetto che facevano le parabole di Gesù sui suoi uditori? Noi conosciamo sicuramente qual è l’effetto che procurano su di noi che spesso siamo tentati di ascoltare con disattenzione questi racconti perché ne conosciamo già il finale. In un certo senso, tuttavia, noi siamo avvantaggiati perché abbiamo anche a disposizione l’interpretazione.
Molti si chiedono perché Gesù, invece di parlare apertamente, utilizzasse questi racconti. Molto probabilmente Gesù si serviva di questi racconti come di gesti di guarigione interiore tarati sul suo interlocutore. Si trattava dunque di racconti non destinati ad essere ascoltati due volte, ma soltanto nel momento in cui Gesù li impiegava per entrare in sintonia profonda con una persona il cui cuore era conosciuto solo da Gesù.
Trovandosi tuttavia davanti a un materiale così ricco, gli apostoli hanno pensato di non poter abbandonare questa sapienza. Le parabole, in quanto racconti di guarigione, potevano infatti avere qualcosa da dire anche ad altre persone. Ecco perché molto presto le parabole iniziarono ad essere raccontate in forma orale e poi raccolte in forma scritta.
Essendo però racconti ad personam e quindi destinati a una persona in particolare, raccogliendo questo materiale la Chiesa ha spostato l’accento su ciò che questi racconti potevano comunicare a tutti. Oggi l’esegesi è impegnata ad i interpretare questi testi cercando di restituire loro il senso originario, basandosi sulla conoscenza storica, filosofica e religiosa in cui vivevano allora le persone a cui erano rivolte, senza incorrere però nel pericolo che proprio quei testi, tanto cari ai cristiani e tanto letti, diventino per noi testi muti.

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Analisi dell’icona bizantina Le nozze di Cana, XII secolo

Dei quattro Vangeli solo quello di Giovanni (2,1-11) narra l’episodio delle nozze di Cana. L’autore ha sapientemente diviso in due la rappresentazione della narrazione, separando il momento precedente e quello seguente al miracolo. Tutto l’episodio avviene all’interno di un luogo chiuso. Se osservate bene la struttura rappresentativa scelta dall’iconografo, potrete notare una certa somiglianza con la disposizione dei personaggi che il grande Andrej Rublev utilizzò per comporre la scena della Trinità. Anche in questo caso l’artista sembra lasciare un posto libero che l’osservatore è invitato a occupare per partecipare alla festa.
Sulla destra potrete vedere il miqweh, ossia la vasca che serve per le purificazioni ebraiche. La consuetudine voleva che il giorno antecedente il matrimonio la futura sposa si recasse al miqweh per purificarsi totalmente dalle impurità e potersi sposare. Ma in quel momento è presente Cristo e quindi il concetto di purificazione viene a modificarsi: non è l’acqua che ha il potere di purificare, ma la Pasqua di Gesù.
A sinistra vediamo poi che Gesù sta parlando con Maria: il loro colloquio pare essere molto intimo. Osservate come le loro teste e le loro aureole siano ravvicinate. Sul tavolo sono collocati tre calici. A Gesù l’arista ha accordato dimensioni maggiori rispetto a quelle degli altri personaggi: egli viene rappresentato come se stesse seduto su di un trono mentre tiene nella mano un rotolo.
Nella prima scena l’artista ha ovviamente attribuito il posto centrale ai due sposi. Tuttavia essi sono ritratti mentre stanno seduti, dunque non hanno un ruolo attivo. La gioia non appare sui loro volti poiché manca il vino: essi hanno passato tutta la loro breve vita a pensare a come sarebbero state belle le loro nozze e proprio adesso è venuto a mancare il vino! Le feste di nozze in Oriente potevano durare anche una settimana e al rito partecipava quasi tutto il villaggio. Il vino poi era simbolo della gioia e dell’armonia, ma anche della fertilità.
Anche nella seconda scena, seppure il Cristo abbia guadagnato il posto più importante, anche agli sposi è riservato un posto d’onore. Essi sono importanti perché simbolo di chi ha permesso al Cristo di entrare all’interno della propria esperienza e di intervenire per modificare la loro realtà. Tuttavia l’intervento di Gesù non è automatico: sembra necessario un certo coinvolgimento da parte di chi ha bisogno del miracolo. E infatti, se notate, è lo sposo che versa l’acqua in una delle giare che Gesù sta per benedire.

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Passione e morte di Gesù

La flagellazione

Gesù venne flagellato secondo l’uso romano. Il flagrum (= flagello romano) consisteva in una frusta con tante cordicelle di cuoio alla cui cima erano legate molte punte di metallo. Queste punte entravano nella carne lacerandola e quindi strappandola via.
I flagellatori erano due e alternavano i loro colpi sulla schiena, sulle braccia e sulle gambe del condannato. Di solito però coloro che erano flagellati non venivano poi condannati a morte perché difficilmente avrebbero resistito fino al supplizio finale.
La flagellazione era usata o come punizione o prima di un interrogatorio per «sciogliere la lingua» al prigioniero.

La crocifissione romana

La crocifissione romana era eseguita fissando il condannato al patibolo con chiodi o con semplici corde. I chiodi non erano conficcati nel palmo delle mani (come si è soliti pensare), ma al centro del polso; allo stesso modo, un solo chiodo piantato poco sopra le caviglie fissava le gambe del condannato. In questi due punti, infatti, le articolazioni del braccio e della gamba formano una specie di fessura, che i soldati romani erano abilissimi a centrare. In questo modo, il condannato non si sarebbe staccato dalla croce, cosa che invece sarebbe stata possibile se fosse stato crocifisso per i palmi. Infilando il chiodo al centro del polso, si otteneva il risultato di recidere il nervo che serve a muovere il pollice: il taglio di questo nervo causa un acutissimo dolore.

La croce

La croce era composta da due elementi: lo stipes (palo verticale), che rimaneva sempre infisso nel terreno, e il patibulum (palo trasversale), che veniva cambiato per ogni condannato ed inserito nello stipes. Non dobbiamo però immaginare che lo stipes fosse molto alto: la sua altezza era di poco superiore a quella di una persona.

La morte sulla croce

Il condannato, appeso per i polsi al patibulum, moriva nel giro di pochi minuti per asfissia. Il peso del corpo, infatti, sostenuto soltanto dai polsi, ricadeva tutto sul diaframma. In questo modo si impediva ai polmoni di riempirsi e svuotarsi d’aria. La morte, dolorosissima, sopravveniva rapidamente per paralisi progressiva dei muscoli, in particolare dei pettorali, bloccati nel naturale movimento della respirazione.
I Romani, per rendere più lungo il supplizio, pensarono di porre sotto i piedi del condannato un’assicella di legno, in modo tale che quest’ultimo, facendosi forza con i piedi, potesse sollevarsi un pochino per respirare. Muovendosi in questo modo, il condannato faceva ruotare i polsi attorno ai chiodi: in cambio di un po’ di ossigeno provava in questo modo un dolore fortissimo.
L’agonia poteva anche durare a lungo, a seconda della resistenza del condannato. Quando si voleva che il condannato morisse in fretta gli si spezzavano le gambe.

La morte di Gesù

Crocifisso, secondo i Vangeli, verso l’ora sesta (a mezzogiorno), Gesù di Nazaret spirò verso l’ora nona (le tre del pomeriggio). A Gesù dunque fu riservato il trattamento più severo, quello usato per i più terribili criminali. Non gli furono neanche spezzate le gambe perché la guardia romana giunta a controllare se fosse morto non poté fare altro che constatare l’avvenuto decesso.
Subito dopo il militare squarciò il costato di Gesù con un colpo di lancia. Questo atto corrispondeva al cosiddetto «colpo di grazia» e con esso si stabiliva ufficialmente la morte del condannato e l’avvenuta esecuzione della sentenza capitale.
Come i condannati a morte in tempi moderni ricevono il «colpo di pistola alla nuca», così Gesù ricevette il colpo di lancia.

La sepoltura di Gesù

I corpi dei condannati a morte erano di diritto proprietà dell’Impero romano: inoltre erano ritenuti impuri dagli Ebrei e non potevano quindi essere seppelliti con altri defunti. Se questo fosse accaduto, infatti, quei cadaveri avrebbero reso impuri tutti i corpi dei defunti presenti nella tomba. Per questo i condannati a morte venivano solitamente gettati in una fossa comune.
Gesù però non venne gettato in una fossa comune perché Giuseppe d’Arimatea, un nobile membro del Sinedrio, si interessò per poter avere il corpo e per dargli sepoltura: la richiesta fu esaudita perché Giuseppe era una persona influente. Il corpo di Gesù venne deposto in un sepolcro nuovo, che non era mai stato usato.

I costumi di seppellimento ebraici e la sepoltura di Gesù

I sepolcri ebraici delle famiglie benestanti di Gerusalemme erano quasi tutti scavati nel tufo ed avevano più camere. Attraverso una porta non molto larga si accedeva a un’anticamera, dove c’era un tavolo di pietra su cui venivano svolti gli ultimi preparativi sul cadavere.
Gli Ebrei non erano soliti mummificare i cadaveri. Questi venivano lavati una prima volta ed accuratamente rasati in ogni loro parte: quindi di nuovo lavati ed unti con oli profumati. Poi attorno al cadavere venivano poste sostanze impregnate di profumo ed infine il corpo era avvolto in una sindone (= lenzuolo) di tela.
Il corpo del defunto avvolto nella sindone veniva trasportato alla tomba ed adagiato su di una barella: per evitare che le braccia e le gambe penzolassero, si legavano i polsi e le caviglie con tele più fini o cordicelle.
Dopo che il cadavere era stato preparato, lo si portava nella stanza più interna, dove veniva posto in un loculo scavato nella roccia. A volte c’erano anche più loculi scavati nel tufo. Quando tutto il cadavere era consumato, le ossa venivano tolte e sotterrate.
Per Gesù non ci fu tempo per ultimare la sepoltura, fatta in fretta il venerdì sera prima che sopraggiungesse il sabato, giorno in cui non si poteva seppellire per non violare la legge del riposo. Le donne, secondo il racconto evangelico, prepararono gli aromi con l’intenzione di finire il rito della sepoltura la mattina del giorno successivo al sabato. Attorno a Gesù erano stati posti, come dice Giovanni, parecchi chili di profumo solido (sacchetti di aloe e mirra) onde preservare il cadavere. Le donne che prepararono la sepoltura di Gesù, diversamente da quanto detto da alcuni, conoscevano molto bene il luogo dove Gesù era stato seppellito.
L’imbocco della tomba era chiuso con una pietra piatta, e rotonda. Questa pietra veniva fatta rotolare all’interno di una scanalatura scavata nella roccia all’ingresso del sepolcro ed era impossibile smuoverla dall’interno perché era molto più grande dell’apertura. Essa era molto pesante e solo alcuni uomini potevano smuoverla dall’esterno, facendola rotolare nella sua apposita scanalatura.

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Santo Sepolcro a Gerusalemme - Visita virtuale

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Il mistero della tomba aperta e vuota…

Dopo il grande racconto della Passione, gli evangelisti procedono a descrivere i fatti accaduti all’indomani del sabato. Seguiamo il racconto di Luca e facciamoci aiutare da Giovanni.
Luca non riporta alcun avvenimento accaduto in quel giorno di sabato. Il capitolo 24 inizia con le donne che si recano al sepolcro di Gesù, quando dovevano essere trascorse 36/40 ore dalla sua morte. La porta del sepolcro viene trovata aperta: all’interno, nessuna traccia del corpo di Gesù. Cos’era accaduto? Il corpo di Gesù era forse stato rubato? Ma perché? E da chi? Oppure era accaduto qualcosa di diverso?
Occorre subito notare il particolare della porta trovata aperta (cioè rotolata nella sua apposita scanalatura, non ribaltata per terra né spaccata): questo fatto porterà in seguito molti a ritenere che il corpo di Gesù fosse stato trafugato dai suoi stessi discepoli, per far credere che Gesù fosse risorto. Probabilmente però questi discepoli-ladri avrebbero richiuso la porta, dopo il furto, per far apparire più spettacolare la presunta «risurrezione» del Nazareno. Ma torniamo al racconto di Luca.
Mentre le donne sono ancora stupite dal ritrovamento fatto, si presentano loro due uomini misteriosi: le loro vesti splendenti (lo splendore del vestito indicava per gli Ebrei l’agire in nome di Dio) e le loro parole li presentano come messaggeri (= angeli) di Dio. Essi portano alle donne il buon annuncio (= evangelo) che Gesù è Risorto.
Il primo annuncio della risurrezione viene dunque dato ad un gruppo di donne, sebbene per gli Ebrei del tempo la testimonianza di una donna non era mai tenuta in considerazione. Anche gli apostoli, da cui subito le donne si recano, stentano a credere a quanto esse raccontano: preferiscono pensare che sia stata tutta un’allucinazione. Pietro, tuttavia, corre a controllare il sepolcro: lì deve constatare che la tomba è aperta e vuota.
Secondo il Vangelo di Giovanni (cf. Gv 20,1-10) Pietro si accorge che la sindone e gli altri lini che avvolgevano il corpo di Gesù si trovano ancora là, proprio come erano stati messi al momento della sepoltura: solo che, dentro, il corpo non c’era più. Non sembrava proprio, cioè, che quei lini fossero stati strappati dal corpo ed abbandonati alla rinfusa: sembrava invece che il corpo si fosse «volatilizzato» e che sindone e lini si fossero afflosciati là dove erano stati messi. Il particolare dei lini convinse probabilmente Pietro che doveva essere successo qualcosa di strano: dei ladri di cadaveri, infatti, non avrebbero potuto lasciare i lini in quel modo. Sempre dal racconto di Giovanni veniamo infatti a sapere che attorno al capo di Gesù era stato arrotolato un sudario, probabilmente per evitare che la bocca si aprisse o rimanesse aperta durante la sepoltura. Stando a Giovanni, il sudario venne poi rinvenuto proprio dove e come era stato composto il capo di Gesù. Oltretutto, i ladri avrebbero dovuto agire in gran fretta, per la paura di venir scoperti (le leggi sia romane che ebraiche erano severissime nei confronti dei ladri di tombe): tutto invece sembrava in ordine nella tomba, come se qualcuno avesse agito con estrema calma.
Ma chi poteva avere interesse a rubare il cadavere di Gesù? Vediamo:
1) non certo i Romani, per i quali il caso-Gesù non aveva alcun interesse;
2) né d’altra parte il Sinedrio, o altri Giudei, ai quali interessava che si dimenticasse presto il nome del Nazareno;
3) gli apostoli erano i soli ad essere interessati a fare ciò, per far credere che Gesù fosse risorto. Ma perché sfidare le ire del Sinedrio e la «suscettibilità» dei Romani per difendere la memoria di un crocifisso che, in fin dei conti, aveva deluso tutte le speranze? D’altra parte, se qualche esaltato del gruppo dei discepoli avesse compiuto il furto, Pietro e i Dodici se ne sarebbero prima o poi accorti.

…e le apparizioni

Luca racconta rapidamente tutti questi fatti e passa subito dopo a narrare le apparizioni di Gesù Risorto. È importante sottolineare come quelle riportate dai Vangeli si presentino come apparizioni e cioè come fenomeni caratterizzati da una loro particolare oggettività e concretezza, ben diversi per caratteristiche dalla visione personale (rivelata solo ad un singolo e non a tutti i presenti) e dall’allucinazione (che non suscita nel soggetto la benché minima forma critica di dubbio o di sorpresa). Elementi forti di queste apparizioni risultano infatti l’incredulità iniziale, la paura di essere dinanzi ad un fantasma, il non-riconoscimento iniziale dell’apparso, il non voler quasi credere a ciò che si vede «perché troppo bello per essere vero».
Luca riporta due principali apparizioni di Gesù: ai discepoli di Emmaus e ai Dodici nel Cenacolo. In questi racconti, egli sottolinea due cose molto importanti:
• l’incredulità iniziale degli apostoli, che non credono subito di vedere Gesù Cristo Risorto ma dubitano, pensando di avere un’allucinazione o di vedere un fantasma. Questo dubbio degli apostoli ci fa capire che non erano né esaltati né allucinati;
• il fatto che il corpo di Gesù sia vivo, ma in modo diverso da quello degli apostoli (corpo risorto), pur non essendo un fantasma.
Infatti Gesù:
• parla, discute, insegna, rivela le Scritture;
• siede a tavola, spezza il pane;
• mangia davanti agli apostoli;
• entra nel Cenacolo a porte chiuse;
• chiede di essere toccato e guardato;
• appare e scompare.
Il corpo del Risorto è diverso da quello che gli uomini possiedono durante la vita terrena: ma non è solo un’anima.
Sia Luca che gli altri evangelisti esprimono molta difficoltà a descrivere l’esperienza del Cristo Risorto. Possiamo capire e spiegare tutto ciò: se è vero ciò che essi dicono (cioè che Gesù è Risorto), è la prima volta che degli uomini si trovavano di fronte ad un uomo risorto. Secondo i cristiani, Gesù avrebbe così voluto far constatare loro la realtà della risurrezione, che attende tutti gli uomini.